Da qualche settimana i conflitti sociali sorti nelle periferie urbane, in particolare a Roma e Milano sebbene siamo davanti a due ben distinte situazioni, stanno occupando i media mainstream oltre che le energie del ministero della difesa e dell’interno. I leit motiv delle riflessioni apparse a video e sulla stampa (in particolare sul Corriere per il caso milanese) sono “ripristino della legalità”, “forte disagio sociale”, “antagonisti che soffiano sul fuoco”, spostando la discussione più su un piano morale che su quello materiale. Il piano è quello di legittimare azioni repressive contro il dissenso e far avanzare il processo di espulsione dalla città vetrina di chi non è desiderato (perché consuma poco, perché pone criticità, perché è in eccedenza rispetto al bisogno reale di forza lavoro). Nel caso milanese, questa legittimazione viene inseguita attraverso un tavolo in prefettura che coinvolge Comune di Milano e Regione Lombardia. Per avere idee più chiare rispetto a questa situazione, in cui (sempre rispetto al caso milanese) Comune e Regione ricoprono i ruoli del poliziotto buono e poliziotto cattivo, occorre ristabilire il quadro sociale in cui tutto questo è inserito, un quadro che la crisi economica e le politiche di austerity hanno reso drammatico, ma dentro un solco che viene da lontano.
Sotto le spinte dettate da vent’anni di governi locali con dentro forti componenti razziste e autoritarie e con un’accelerazione che Expo ha reso evidente, Milano sembra incarnare il laboratorio italiano che più tende ad avvicinarsi ai modelli mondiali di “città del capitale globale” e di “metropoli totale”. La vita sempre più frenetica, caotica e irrespirabile ne fa un luogo di sfruttamento totale, dove tempo di lavoro e tempo di non lavoro si sovrappongono e si compenetrano irreversibilmente. Una ristrutturazione e una trasformazione iniziate molti anni fa, giunte ormai ad un punto avanzato e soffocante che bisogna cercare di fermare ed invertire. La città delle fabbriche è diventata la città della finanza, degli eventi, della precarietà, dove il fatto stesso di vivere determina meccanismi di accumulo e ogni comportamento “non a profitto” deve essere ricondotto in qualche modo a valore o messo nelle condizioni di non nuocere. Nel suo piccolo, una New York o una Los Angeles nostrana, che cerca di riprodurre i loro aspetti repressivi e disciplinari. Una città del profitto e del controllo, per l’appunto. Controllo e autocontrollo a monte sui corpi e sulle scelte delle persone, sui comportamenti e sui termini della comunicazione, sul tempo di lavoro, sui tempi di vita e sulle relazioni sociali. Ricatti economici e morali, la precarizzazione selvaggia del lavoro e della vita, un governo ferreo delle reti produttive e comunicative, la disinformazione emergenzialista, l’invasività tecnologica e, quando serve, una repressione disciplinare classica, fatta di polizia e galera, questi gli strumenti con cui si gestisce il governo del territorio. Leggi tutto “La città del profitto e del controllo”