Appunti a cura del Lab. Off Topic sul fuoco incrociato ai danni di chi lotta, di chi occupa, di chi abita.
L’alba di mercoledì 29 ottobre ha salutato 5 attiviste/i del Comitato Autonomo Abitanti Barona con perquisizioni a diverse abitazioni e la notifica di 5 misure cautelari. L’indagine della questura di Milano, nata da una fantasiosa querela di parte, affresca un quadro osceno del collettivo che, nella periferia sud di Milano, da anni lotta per il diritto alla casa e ad una vita degna. Una manciata di ore dopo l’avvio dell’operazione repressiva, solo la gravità dei reati contestati supera il tono grottesco con cui la stampa fa eco alla questura.
“Schiavizzano e picchiano a sangue”, “l’avevano cercata e punita”, “presentiamoli in ordine alfabetico”. Non dobbiamo mostrare alcuna vergogna, nessun tentennamento a condividere con quale sprezzo e noncuranza la velina odierna è ripresa dal paludato Corriere della Sera e offerta in pasto alla cultura della paura e del disprezzo. Il primo esito della repressione, dopo la vendita di spazi pubblicitari sull’altare del clickbaiting è proprio quello di screditare, di ingenerare senso di insicurezza e diffidenza, di evocare controlli più tecnologici e pervasivi.
Quello delle periferie milanesi non è un territorio vergine a questo tipo di iniziative: prima impariamo a leggerne modi ed obiettivi, prima svilupperemo anticorpi adeguati al momento presente. Non è passato un anno da quando lo scorso 13 dicembre un’analoga operazione di polizia portava all’arresto di altri nove compagni con l’accusa, presto smentita, di racket ai danni anzitutto di chi lotta per avere un tetto sotto cui abitare. Ripercorriamo allora gli elementi comuni all’op. Robin hood e a quanto accaduto ieri in Barona:
1. Apertura delle ostilità in grande stile. I numeri e l’ingombro del dispositivo sono la rappresentazione plastica del bisogno che il quartiere sappia, che tutti osservino e riferiscano: la teatralità esibita e ammonitrice della lentezza.
2. Lasciate conferenze stampa e il ruolo stesso di giornalista nell’archivio delle memorie Novecentesche: il lancio d’agenzia scatta appena dopo l’ingresso negli appartamenti, a cascata arrivano i video, gli audio delle intercettazioni, i non meglio precisati virgolettati, il taglia e cuci morboso delle parole rubate.
3. Le cose si fanno in grande, sempre. Ci devono essere degli arresti, qualcuno (sempre in attesa di giudizio) deve finire “dentro” e i reati contestati, devono tradire la ferocia e la pericolosità sociale degli attenzionati. Poco importa che poi tutto si risolverà altrimenti come un normalissimo procedimento giudiziario: il lessico deve parlare di blitz, di modus operandi, di leader.
4. La narrazione dei fatti dev’essere distorta per facilitare il posizionamento univoco delle persone per bene, isolare e tacitare quelle distoniche. Poco importa che buona parte delle accuse infamanti cadrà, il contraddittorio non è previsto.
5. Una volta fatta sedimentare l’onta, solo allora, si potrà passare oltre. Delle scarcerazioni che verranno, delle accuse che si riveleranno infondate, dell’esito dei successivi gradi di giudizio, non rimarrà comunque traccia nella mente di chi ha visto il telegiornale, di chi si è affacciato al balcone, di chi ha letto distrattamente la colonna tra un cappuccio e un croissant.
Non abbiamo bisogno di riporre fiducia nella giustizia né consenso nelle politiche pubbliche per ricordare ai tanti attori di questa dolorosa piece che la presunzione d’innocenza è un pilastro dello stato di diritto.
Non abbiamo bisogno di lezioncine a mezzo stampa per riconosce nel racket che “assegna” case dietro pagamento un inequivocabile nemico della lotta per il diritto all’abitare.
Non abbiamo dimenticato che l’ente che le tiene strumentalmente sfitte e non provvede alla loro manutenzione e assegnazione è ugualmente colpevole dello stato di degrado, abbandono, disinvestimento in cui versa il patrimonio ERP di questa città.
L’attacco frontale e reiterato ai danni delle/gli attivisti più esposti affonda le radici in una precisa dottrina securitaria che vede nel decoro, nella sanificazione sociale, nella normalizzazione dei caseggiati, la fase che segue temporalmente l’abbandono e precede lo smantellamento. L’ordine pubblico, da mera tattica, si fa strategia dello spazio urbano e di una precisa visione di città metropolitana. Il corpo sociale attenzionato da questa metamorfosi è ben più ampio delle comunità militanti, occupanti per necessità, abitanti i caseggiati popolari. Con questi soggetti, nonostante la polverizzazione sociale e rifiutando attitudini divisive, è più che mai necessario cercare alleanze utili a contrastare il darwinismo urbanistico che minaccia la città pubblica.
La nostra vicinanza con gli irregolari della Barona non è cementata da affinità ideologica né dalla mera certezza che le accuse turpi si sbricioleranno presto. La nostra vicinanza matura nella convinzione che se qualcuno spera di farla finita con spazi sociali, comitati e autogestione, è perché ha in mente una Milano pacificata e indesiderabile da una porzione ben più ampia di questa città.
Ogni singola casa popolare non abitata è l’autentico furto con scasso ai danni della cittadinanza.
Ogni scellerata operazione di indebitamento è la vera rapina ai danni delle fasce sociali fragili.
Ogni sanitario rotto durante uno sfratto o sgombero è certamente una violenza aggravata ai danni di una Milano accogliente e solidale.
Lab. Off Topic