La nostra esperienza sul web come materia prima di un mercato non aperto, di asimmetrie dell’informazione. Come cancellare le nostre tracce, evitare di essere tracciati e garantirci libertà di movimento digitale?
Nei primi tempi di Internet, il collegamento tra un computer e un server si basava sulla fiducia tra i due. Questa “fiducia” è stata manomessa dal marketing digitale, scoperto da Google e seguito da diversi altri. La nostra esperienza con il web è diventata la moneta di scambio, monetizzando Internet per il profitto commerciale di pochi.
Ogni ricerca, ogni interazione, ogni acquisto, lettura, visualizzazione, transazione, scambio, click, refresh, caricamento e condivisione: insomma, letteralmente ogni nostra azione sul web produce una mole di dati e di tracce digitali. Soltanto una piccolissima parte di queste è immediatamente disponibile in forma strutturata, mentre il grosso richiede una lavorazione successiva. Sono ciò che gli studiosi del campo definiscono surplus comportamentale, la cui “scoperta” ha fatto la fortuna di Google e, successivamente, delle altre aziende della rivoluzione digitale che hanno imitato il business model originario inventato dal gigante di Mountain View. Alla base c’è l’intuizione che la vera fonte del profitto sul web sono le tracce e i dati non strutturati che noi tutti lasciamo inconsapevolmente, più che i segni scoperti e trasparenti – il comportamento consapevole – del nostro agire sui motori di ricerca, nei siti di e-commerce, sui social network, nel mondo dell’informazione online. Surplus comportamentale è ad esempio il tempo di svolgimento di una ricerca, le reazioni ai risultati delle ricerche, le parole chiave e come mutano nel tempo, il numero di click e così via. Il risultato è la costruzione di una UPI per ciascuno di noi: User Profile Information, che può essere inferita, presunta, dedotta. E’ il nostro dataset personale, scomposto e rivenduto in tante parti con altri pacchetti di informazioni, a soggetti terzi per milioni di volte.
Ed è proprio qui un altro passaggio fondamentale del data tracking: la maggior parte dei siti al suo interno include bug, cookies, embedded code che provengono da domini e server di società terze, le quali registrano e monitorano le informazioni (indirizzo IP, tipologia e modello di devices utilizzati, sistema operativo) su di noi così come i nostri comportamenti attraverso questi strumenti. I dati sul nostro dispositivo e sul comportamento online consentono alle aziende di collegare i nostri gusti e interessi direttamente a noi e di creare le UPI, utilizzate in maggioranza per costruire inserzioni pubblicitarie ad hoc, personalizzate, ma anche per indurre il comportamento: producendo e sottoponendo nel momento e nel luogo – fisico in cui mi trovo o digitale su cui sto navigando – calcolato (previsto) come più opportuno dall’algoritmo. La logica pubblicitaria resta quella centrale – e non a caso ad esempio Facebook è registrato nei listini delle piazze finanziarie dove è presente come “società pubblicitaria” – ma è previsto un passaggio ulteriore rispetto al modello commerciale del secolo scorso: l’influenza e la previsione sull’interesse, l’acquisto di un dato prodotto e/o la navigazione, la lettura di un certo sito.
Le normative sulla privacy e i regolamenti dei singoli siti o piattaforme valgono relativamente: sebbene in molti casi sia stato possibile, tramite cause e class action, correggere il comportamento dei principali attori del mercato digitale, tuttavia la maggioranza del data tracking non avviene in modo illecito o nell’illegalità. Sono le molte pagine delle normative sulla privacy che indicano la funzione dei cookies presenti sul sito o le finalità commerciali della vendita a parti terze. Tuttavia, diverse ricerche hanno dimostrato come sostanzialmente nessuno dedichi più di una media di 2 minuti alla lettura di documenti che ne richiederebbero almeno 45. Il nodo da sciogliere non è dunque sulla trasparenza normativa o il rispetto della privacy, quanto il monitoraggio e lo sfruttamento di quel surplus comportamentale che è permesso nell’architettura attuale dello spazio digitale. Interrompere la catena dell’esproprio di ogni nostro dato è il primo passo per inceppare il meccanismo di accumulazione del capitalismo della sorveglianza. Gli strumenti che proponiamo vogliono aiutare ad agire in tal senso.
Le altre pillole:
0. La presentazione della campagna
1. Chat, video e streaming liberi
2. Educazione e didattica digitale
3. Film, documentari, intrattenimento