Whatsapp & co. funzionano alla grande. Ma hanno un piccolo difetto: espropriano i nostri dati personali e li vendono al migliore offerente, rendendoci più sorvegliati e ricattabili.
Dietro la retorica della costruzione di “una comunità globale e connessa al servizio di tutti noi” c’è un progetto cinico e aggressivo per costruire un aspirapolvere globale di dati che attinge da tutti noi. Le grandi aziende come Alphabet (Google), Facebook (Fb, Whatsapp, Instagram) e Amazon guadagnano scavando in profondità nei nostri dati personali, ricavandone modelli di comportamento e attitudini di acquisto che poi rivendono a terzi istituendo, di fatto, un mercato, piú o meno invisibile agli occhi dei piú. Se la cosa può apparire innocua ai più, in realtà non lo è.
Il fatto che ci invadano pubblicità sempre più invasive, mirate, targettizzate ai nostri gusti non dipende dalla capacità divinatoria delle macchine, ma dal fatto che stiamo vendendo a queste multinazionali “pezzi” della nostra vita. L’idea di un futuro digitale tutto rosa e fiori ha un prezzo sociale altissimo: passa dalla schedatura delle persone attraverso le loro operazioni on-line e sui dispositivi, considerandole non come individui ma aggregati di dati da spremere per ricavarne denaro. I dati che produciamo sono manodopera e hanno un valore che non viene riconosciuto dalle aziende di cui sopra.
Il comportamento di queste aziende, inoltre, è sleale perché occulto: avete mai provato a leggere i termini di sottoscrizione a Whatsapp? Ma chi le legge 30 pagine di informativa sulla “privacy”? L’uso di un linguaggio vago, avvocatesco, é vantaggioso sempre e comunque per coloro che di fatto sono, cioé diventano, con un nostro semplice click, i proprietari delle suddette informazioni. Una macchina che favoriamo e supportiamo con la nostra disattenzione e inconsapevolezza, “accettando le condizioni” di un patto demoniaco con “fornitori di servizi”.
Altra questione: chi sono questi “terzi” che comprano i nostri dati? Come ha dimostrato lo scandalo di Cambridge Analytica qualche anno fa, Facebook e gli altri social network di sua proprietà vendono dati al miglior offerente, e questa impressionante mole di informazioni può venire usata non solo per determinare le nostre abitudini e frequentazioni oltre che modificare aspetti fondamentali del nostro vivere. Oppure i dati possono venire usati, come ci insegna la recente crisi corona virus, per ventilare l’esercizio sui cittadini di una forma di controllo sociale dall’alto (la Regione Lombardia che monitora e controlla gli spostamenti attraverso gli smartphone), rendendo un futuro distopico il nostro presente reale.
Quindi, per riprendere controllo delle nostre azioni che siano on-line o off-lilne e non accettare a-criticamente quello che ci accade intorno, le tecnologie open source e che proteggono i nostri dati sono un primo passo verso la messa in discussione di un modello accentratore (sia in termini di monopolio di mercato che di controllo para-statale) e potenzialmente distruttivo dei nostri diritti.
Le altre pillole:
0. La presentazione della campagna
2. Educazione e didattica digitale
3. Film, documentari, intrattenimento
4. Scrivere, archiviare, lavorare a distanza