Nel dibattito su Macao ci sono tutte le ragioni del conflitto con la città-evento e i “falsi amici” del Movimento

Nelle ultime due settimane si è scatenato un dibattito pubblico a Milano alla notizia che nell’ex Macello di viale Molise dove è stato di casa Macao per un decennio (2013-23) si sarebbe tenuto l’ennesimo micro-evento di uno degli eventi per definizione della città-evento – la Design Week. In particolare, una “riattivazione”, come si usa nella neo-lingua dei gentrificatori, denominata Vocla e organizzata da Alcova – una piattaforma di design fondata  da Joseph Grima e Valentina Ciuffi – per, citiamo testualmente: “insinuarsi nella ex cattedrale per eccellenza della sottocultura milanese, il più affascinante degli spazi dell’ex macello, con un’operazione di overexploitation di tutto quello che da questa settimana si può prendere senza mai più restituire. L’allestimento di design qui cambia forma per assumere quella di un bar venduto alla milanesità come “piattaforma di social gathering”, con food&drink curati da Yapa, mentre dell’atmosfera sonora si prende cura Radio Raheem. L’accesso è libero secondo capacità”. Ma la capacità di spesa limita chi potrà godere della food experience da 130 euro a persona, su prenotazione.

Rivista Studio ha scritto un articolo democraticissimo, intitolato Nel dibattito sul Macao ci sono tutte le contraddizioni di Milano, per tenere insieme tutto e il suo contrario (o apparente contrario): le ragioni delle rimostranze apparse sui profili social del fu Macao e quelle degli imprenditori della cultura che, senza cattiveria e con buone intenzioni a detta loro pur se in forme escludenti ed esclusive, cercano di “ridare” (a chi?) spazi lasciati vuoti dalla “provvisorietà” del carattere stesso delle occupazioni (“politiche” non viene detto, si parla solo di quelle “contro-culturali”); vissuti come necessari da un pezzo di città, ma incapaci appunto di durare – e rispondere alle necessità del loro pubblico, quindi, in ultima istanza, del mercato che gli offrirebbe anche opportunità di esistere ed essere “valorizzati” (leggi: messa a profitto). Però non crediamo che questa storia riveli le “contraddizioni dentro Milano”, tra le ragioni dell’antagonismo politico, sociale e culturale, e quelle (per citare sempre Rivista Studio) “della cultura indipendente, dei cittadini, di chi è più fortunato e quello di chi lo è meno, dell’innovazione, vetrine, dell’amministrazione, del business, delle associazioni, degli investitori, di chi comunica – che continuano a produrre equivoci e battaglie che potrebbero essere evitate”.

No, la contraddizione sta in seno ad ambienti comuni – genere, razza, classe, cultura politica, condizioni materiali e così via – dove si producono e generano molteplici fratture e linee di tensioni. In questo caso, tra la controcultura antiautoritaria e anticapitalista e le “imprese dell’underground” prodotte dal modello urbano si tratta di conflitto aperto e non ricomponibile, come ci ha insegnato la storia meneghina degli ultimi 15/20 anni – e che non vorremmo comunque risanare.

Striscione contro la Design Week, Piano Terra (2023)

Ora, noi crediamo che invece questo dibattito su Macao riveli tutte le contraddizioni dentro quella comunità, certamente in crisi storica di prospettiva sebbene in grado di continuare a rigenerarsi ed essere presente nella scena pubblica della “piccola metropoli” milanese, che un tempo chiamavamo “Movimento”. Ed è qui che possiamo provare a ragionare di ricomposizioni. Perché ciò che suggeriscono le voci del mondo della comunicazione, del design “democratico”, degli eventi “inclusivi”, della “arte” e della “contro-cultura”, così come dell’associazionismo e dell’imprenditoria “sociale”, che si sono levate a denuncia dell’operazione di Alcova e per rivendicare l’esperienza di Macao, è una mano tesa che sarebbe molto pericoloso cogliere.

Dietro ci sta una visione non contraddittoria con il “modello Milano”, ma a esso perfettamente integrata: non a caso lorsignori parlano di un abuso e una distorsione del significato di “spazio pubblico” (che non vuole dire “collettivo/comune/”, ma “reso accessibile” dalla “valorizzazione” permessa dalla privatizzazione), invece che di “centro sociale”, termine che ha una sua storia ben precisa; il riferimento alle “occupazioni” e “autogestioni” è solo a quelle di carattere “culturale” e “sociale” genericamente inteso (e probabilmente inteso nei termini del “privato sociale” e del “terzo settore”); la distinzione tra “meritevoli” e “non meritevoli” sta nella quota di permeabilità che questi spazi occupati hanno dimostrato nei confronti dell’ “underground” istituzionalizzato e ufficiale – Design week e Fuorisalone in primis, grandi e piccoli eventi della cooptazione per definizione.

E non a caso, di viale Molise 68, si ignora volutamente o meno la prima liberazione dell’ex Macello: quando nell’ottobre 2010, un neonato collettivo “ZAM Racaille” (citando il termine, “racaille”/”teppa”, con cui l’allora presidente francese Sarkozy definì la popolazione delle banlieues in rivolta) entrò per la prima volta nello stabile abbandonato. Così come non si ricorda la prima occupazione di Macao, nel maggio 2012 alla Torre Galfa: il più antico grattacielo di Milano (completato nel 1959), 31 piani, abbandonato a inizio anni 2000, dopo lo sgombero acquistato da Unipol con un investimento di 300 milioni nell’operazione, per proporre un modello misto (affitti brevi, hotel e servizi).

Occupazione temporanea da parte del Collettivo ZAM dell’ex Macello di viale Molise 68, ottobre 2010

Il rischio è che, paradossalmente, questo dibattito su Macao (così come quello sul Leoncavallo, la cui difesa si è ridotta alla sola retorica del “simbolo”, secondo noi tanto pericoloso quanto limitato) offra il “la” per rilanciare la “via berlinese” alla risoluzione dell’antagonismo – integratevi nel mercato della città-evento, regolarizzatevi secondo la nostra norma, diventate luoghi della acculturazione, non della cultura, o morite – che qui da noi non ha mai avuto grande fortuna e che è stato più spinto da settori di Movimento che da legislatori locali e nazionali, che agivano invece da una posizione “di forza”.

Assemblea pubblica fuori dalla Torre Galfa occupata da Macao, maggio 2012

Questo, naturalmente, è dovuto a quella crisi cui accennavamo sopra: non siamo ciech* e riconosciamo di trovarci di fronte al superamento del modello “centro sociale” così come è nato ed è esistito dalla fine degli anni ‘70 a oggi. 

Come ogni forma di organizzazione e auto-organizzazione politica e sociale, esso era legato a specifiche condizioni storiche e sociali, e a differenti rapporti di forza, che sono andati lentamente a modificarsi, ma non a esaurirsi. Non giudichiamo pertanto nessun*, ogni esperienza politica di base e antagonista ha il diritto e la legittimità di trovare le forme per durare, crescere e mantenere la propria presenza di critica radicale sui territori. Tuttavia, rimane l’esigenza di dare un nome e affrontare le contraddizioni, in un percorso che torni a ragionare collettivamente in termini di comunità antagonista capace di essere soggetto di produzione di cultura critica al di fuori della banale e violenta logica del profitto e dello sfruttamento.

L’unico modo per riattivare invece il conflitto necessario non solo con la destra post-fascista e razzista, ma anche con i falsi amici che a questa hanno spianato la strada della disuguaglianza sociale e della retorica del “decoro” e della “messa a valore” di qualunque metro quadrato ed esistenza (pardon, “esperienza”).