Spunti di riflessione sulla recente tornata elettorale scritti da uno di noi.
Mentre il dibattito nazionale ruota attorno alle possibili soluzioni per superare l’impasse istituzionale dell’ingovernabilità (con un certo voyeurismo politico ci vien da dire), abbiamo pensato di proporre, come parte dell’area politica antagonista milanese, degli spunti di riflessione su alcuni aspetti emersi dalle recenti elezioni politiche.
Sappiamo che non è abitudine dei movimenti sociali e delle realtà extraistituzionali occuparsi degli eventi della politica di palazzo, tuttavia secondo noi il provare a comprendere le geometrie di potere che (in parte) le elezioni hanno modificato e le trasformazioni che il nuovo assetto rivela, è più che mai necessario. Evitare di parlarne o restare indifferenti, più che essere un segno di purezza e integrità sarebbe ottuso autismo nei confronti della società.
Cerchiamo di essere brevi e di andare per punti. Anticipiamo subito che il cuore del nostro ragionamento e ciò su cui vogliamo invitare a riflettere (senza avere immediatamente delle risposte) è il rapporto tra i movimenti sociali, l’antagonismo e il consenso.
Due sono gli aspetti su cui riflettere principalmente, dal nostro punto di vista: l’affermazione del grillismo e il fallimento politico della sinistra italiana.
Per tutta la campagna elettorale, la sensazione e l’illusione diffusa era che si sarebbe potuto andare a votare come se la crisi non ci fosse stata, come se gli ultimi cinque anni non avessero profondamente modificato le condizioni di vita delle popolazioni europee e le categorie politiche con cui queste interpretano la realtà (che derivano sempre, in origine, da istanze concrete e bisogni immediati). Invece, veniamo da una fase di impoverimento generalizzato, un anno di massacro sociale ad opera del governo tecnico montiano appoggiato da tutti e la crisi ormai diventata permanente. Inoltre, la speculazione e la devastazione dei territori, da anomalia del sistema italiano, ne sono ormai parte integrante e spingono persone in contesti geografici differenti all’organizzazione e alla mobilitazione, trovando la più totale ostilità degli amministratori.
In questa situazione, facendo leva sul vuoto politico lasciato dal centrosinistra e sull’incapacità dei movimenti di essere radicati e permanenti sui territori, il Movimento Cinque Stelle ha occupato militarmente e mediaticamente lo spazio della frustrazione, della rabbia apolitica, della precarizzazione. Il grillismo è un movimento chiaramente populista (per quanto sia un populismo 2.0): nei suoi pochi punti programmatici (ispirati a principi e interessi sociali spesso in contraddizione tra loro), nella sua retorica, nella lettura storica che dà della società, nella sua leadership rappresentata da due miliardari dichiaratamente liberisti. In quanto tale va combattuto.
Eppure, la base elettorale e il consenso raccolto non possono essere ridotti al qualunquismo fisiologico dei votanti: anche analizzando i flussi elettorali risulta evidente che il M5S, oltre ad aver pescato da astensione, destra (Pdl e Lega) e ceti imprenditoriali, ha raccolto consensi anche in parte della base Pd, nei movimenti per la terra ed ecologisti, tra precari e disoccupati. E qui c’entriamo noi, in quanto ala antagonista dei movimenti sociali.
Prendiamo due temi come esempio: il reddito minimo e i movimenti di difesa territoriale contro grandi opere e speculazione.
In entrambi i casi, Grillo e Casaleggio si sono innestati su percorsi politici di anni, portati avanti da militanti che pur tra mille difficoltà sono riusciti ad imporre la tematica, a far nascere il dibattito e a mobilitare persone. Com’è possibile che in sette anni di percorso politico e con l’assenza concreta (sia nelle pratiche sia a livello di iniziative, fatta qualche eccezione) dalle vertenze territoriali, il grillismo abbia raccolto così tanti consensi e abbia di fatto egemonizzato mediaticamente l’immagine di lotte e tematiche, nate a sinistra? Sicuramente c’entra il fatto che il voto al M5S sia un voto di opinione, di protesta, slegato dalla reale presenza nei movimenti; eppure anche qui c’entra in parte un discorso di spazio lasciato vuoto, però questa volta a livello organizzativo. Il caso della Val Susa (dove i No Tav accettano senza troppe riserve il cappello grillino) ci ricorda che il rischio che il populismo di Grillo egemonizzi parte di questo tipo di lotte, non è semplice allarmismo.
Seconda questione: il fallimento politico della sinistra italiana, al di là dell’affermazione del M5S. Il dato è trasversale e riguarda tutti. Il centrosinistra non ha rappresentato (e diciamo noi: per fortuna, con le premesse che c’erano) il canale di espressione del malessere sociale e della precarizzazione dovuta alla crisi: contrariamente a quanto avvenuto in Francia con Hollande, Pd e Sel non ce l’hanno fatta a porsi come polo di responsabilità e moderazione; o forse ce l’hanno fatta, ma proprio per questo hanno perso: in una situazione di massacro, il popolo segue chi finge di parlare il suo linguaggio e sembra esprimerne la rabbia. Il tempo della moderazione, se mai c’è stato, è finito definitivamente con queste elezioni.
Dall’altro lato, quel che resta dei partitini della sinistra radicale ha scelto il suicidio politico affidandosi a sbirri e magistrati per garantire uno stipendio ai propri segretari falliti: non abbiamo bisogno di aggiungere altro per interpretarne il misero risultato.
E poi veniamo noi: gruppi, bande, collettivi, centri sociali, attivisti dell’estrema sinistra. Non abbiamo saputo comprendere le trasformazioni che la crisi ha portato o non abbiamo avuto la capacità rendere solida la nostra presenza nei movimenti in cui lavoriamo (o almeno non in tutti); oppure ancora eravamo troppo pochi a porci il problema e lavorare in quella direzione. Spesso infatti c’è la tendenza, da parte dei militanti, a confondere i movimenti sociali con la loro componente antagonista; ma i movimenti sono effimeri per natura e nello spontaneismo possono aggregare posizioni anche differenti, di cui non è certo quale sarà quella prevalente. Attenzione: non è nostra intenzione qui lanciare accuse o imbastire processi; stiamo cercando di capire perché il generoso e forte impegno di moltissimi compagni non abbia però ottenuto risultati di più ampio respiro e come eventualmente porvi rimedio. Perché è un dato di fatto che del vuoto politico lasciato da un centrosinistra succube dell’ideologia dell’austerity e del neoliberismo; delle contraddizioni e della rabbia esplose con la crisi; della radicalizzazione dell’opinione pubblica (senza però la sua politicizzazione): di tutto questo si è servito un movimento populista invece che le realtà di sinistra presenti sul territorio.
Il primo passo da fare potrebbe forse essere tornare a riflettere sul tema del consenso: da troppo tempo abbiamo smesso di capire come la nostra azione possa concretamente riflettersi in termini di seguito, aspettative e, quindi, organizzazione. Soprattutto, al di là degli obiettivi particolari e immediati, che respiro più ampio vuole avere l’antagonismo in Italia? Si tratta qui di cercare di trovare dei parametri, delle forme che ci permettano di comprendere come superare la disarticolazione, lo stallo e la crisi dell’agire sui territori. Come tornare ad avere un ruolo politico in una fase storica che sta spazzando via molti dei protagonisti del secolo scorso e dove si afferma solo chi capisce le tendenze e risponde adeguatamente.
Se c’è una cosa che i partigiani e le vecchie generazioni di militanti ci hanno insegnato è che non esistono situazioni senza via d’uscita; sta all’intelligenza e alla volontà riuscire ad individuarla. Saremo all’altezza della sfida?