Si chiama Milano 2030 la vision che accompagna il nuovo Piano di Governo del Territorio del Comune di Milano. Presentato dall’assessore all’urbanistica Pierfrancesco Maran prima dell’estate, approvato dalla Giunta nei giorni scorsi, il nuovo PGT sta entrando ora nella fase decisiva dell’iter amministrativo che dovrebbe terminare a inizio 2019.
In linea con il mood prevalente da quando Beppe Sala è Sindaco di Milano, e nel solco del PGT vigente (frutto avvelenato delle giunte Moratti e Pisapia), il nuovo strumento urbanistico conferma una tendenza nociva per quanti abitano le periferie e attraversano la città per studio e lavoro, mentre coccola gli appetiti della brandizzazione a uso turistico. In questo solco leggiamo la candidatura ad ospitare le Olimpiadi invernali del 2026 e la dipartita della città pubblica.
Una prima lettura del documento di presentazione tradisce il ruolo di regolatore di interessi privati che l’amministrazione comunale si sta ritagliando nei confronti dei primi stakeholder che riconosce: società di real estate, costruttori, banche, assicurazioni o consorzi privati. Gli obiettivi dichiarati? Attrattività e inclusione, rigenerazione urbana, qualità degli spazi e dei servizi, resilienza, semplificazione e partecipazione. Frasi buttate lì come slogan, poco supportate da dati e analisi, inserite in contesto generale di ottimismo e accelerazione, più in linea con un venditore d’assalto che con la necessità di governare il territorio e pianificare interventi nell’interesse generale. A dettare le linee del PGT sembra piuttosto lo sviluppo immobiliare e la crescita fondata sulle rendite di posizione, quale indice su cui misurare il successo delle trasformazioni urbane, passate e previste. Il modello di città che viene disegnato ricorda tanto il (falso) sogno americano per cui se vuoi ce la puoi fare e se non ce la fai è solo colpa tua, perché Milano è attrattiva e includente. Peccato che questa città “attrattiva e includente” neghi la questione migrante (almeno il 20% della popolazione residente) se non in omaggio ai miraggi di competitività.
Un’area metropolitana che, proprio per poter essere smart, deve nutrirsi anche di “lavori poveri”, attività di servizio poco qualificate, lavoratori e lavoratrici che, se esclusi, rischiano di generare una crescita polarizzata e non in grado di costruire un saldo e competitivo tessuto economico.
Così come si dimentica dell’Area Metropolitana, riducendo la relazione con il territorio circostante alle infrastrutture di trasporto, senza porsi in alcun modo la domanda su quali siano gli equilibri territoriali tra centro città, periferie e comuni limitrofi. La retorica della ricucitura permea tutti i documenti senza un’analisi del perché esistono anelli concentrici tanto differenti nelle stesse cerchi e di prima e seconda cintura. Di questo passo procedendo il diritto alla città e il diritto all’abitare sono sempre più appannaggio esclusivo dei livelli reddituali medio-alti. Questa narrazione tossica, iniziata un decennio fa con il lancio dell’operazione Expo 2015, raggiunge ora la sua iperbole arrivando persino a negare dati, ricerche, evidenze. Prima tra tutte quella che negli ultimi anni Milano è si esclusiva, ma proprio per questo, escludente. Con livelli di costi della vita in testa alle classifiche europee (ma può competere su questo anche con le megalopoli globali come New York e Tokyo) ma dove il potere d’acquisto dei suoi abitanti è in arretramento, con una sperequazione crescente, evidenziata soprattutto dalla crescente dicotomia tra la downtown dei brand di lusso e dei grattacieli sfavillanti e le periferie e i quartieri popolari sempre più abbandonati a se stessi, salvo quando vengono utili per avviare processi di gentrificazione.
Tutto questo stride con la dichiarata “città dove la crescita deve essere per tutti”; basti vedere gli interventi sulle aree di trasformazione, dagli Scali Ferroviari a Cascina Merlata, dove il mix funzionale non prevede alcun ruolo per il pubblico se non per promettere minori oneri o sgravi fiscali a costruttori privati o cooperativistici se prevedono negli interventi alloggi in affitto per housing sociale (ben altra cosa dalla casa popolare e/o pubblica). Nel PGT si dice che questo porta a una maggiore offerta e quindi a calmierare i prezzi di mercato ma un conto è affidarsi alle leggi economiche di “domanda e offerta”, un altro è prevedere politiche pubbliche che garantiscano il diritto alla casa a prescindere dal mercato. Nulla poi in merito al recupero del patrimonio abitativo pubblico se non nei termini di stravolgere i quartieri (come il Giambellino) lasciando che sia il privato, incentivato, a riqualificare alloggi ed edifici degradati. Si avviano così, di fatto, processi di allontanamento degli abitanti più disagiati e innestando processi gentrificativi già vissuti in epoche diverse da altre zone popolari. E non sarà certo la retorica degli “88 quartieri da chiamare per nome” a garantire la qualità dello spazio pubblico e la dignità dell’abitare, se poi tutto è lasciato alla sussidiarietà del privato, ai megastore di brand globali o alle catene commerciali, che rompono le relazioni tipiche del commercio di vicinato.
Si parla di “città sostenibile” e di “diminuzione del consumo di suolo”, ma è solo un gioco sugli equivoci e i non detti che nasconde una realtà diversa. A Milano continua a mancare un Piano Metropolitano della Mobilità Sostenibile e dubitiamo che l’interconnessione che ha in mente la giunta abbia qualcosa a che vedere con la sostenibilità. Viene esaltato il ruolo internazionale della città, la velocità dei collegamenti aerei, ferroviari e autostradali, non certo la pedonabilità, la ciclabilità o il trasporto pubblico di superficie a emissioni zero. Anzi anche gli snodi d’interconnessione (Molino Dorino, Famagosta, Comasina, Bisceglie, Rogoredo, Greco, le stazioni, per citarne alcuni) sono visti come opportunità per realizzare nuovo edificato di servizio mentre la città è colma di volumetrie terziarie o ex industriali vuote e abbandonate.
Questo ci porta al tema del consumo di suolo: dichiarare che il nuovo PGT ridurrà il consumo di suolo è l’ennesima dimostrazione di come si possano manipolare numeri e consenso giocando con le parole e contando sul fatto che pochi si prenderanno la briga di leggere le migliaia di pagine che compongono lo strumento urbanistico. Per esempio gli Ambiti di Trasformazione Urbana (tra gli altri le Caserme, Ronchetto delle Rane, via Stephenson..) sono considerati tessuto urbano consolidato e non figurano nel consumo di suolo, anzi il 50% di queste laddove destinato a verde e servizi risulta nuovo suolo “non consumato”. Contare i vuoti della città (gli Scali ad esempio) come suolo occupato per dire poi che, costruendo sui vuoti e realizzando parchi condominiali di pertinenza, diminuisce il consumo di suolo è una bugia facilmente verificabile limitandosi a guardare Milano dall’alto. E che dire poi dei nuovi interventi previsti per Grandi funzioni urbane su aree oggi libere o verdi: la Goccia in Bovisa, il Trotto, Piazza d’Armi, Porto di Mare, Ronchetto delle Rane, Rubattino, oltre ai già citati Scali (Farini, Porta Genova, Porta Romana, Porta Vittoria, San Cristoforo, Greco, Lambrate). Aree dove l’indice di edificabilità dichiarato dello 0,35 mc/mq è derogato nelle aree a grande accessibilità (ad esempio gli ex Scali Ferroviari) e può arrivare a 1 mc/mq e anche oltre per le Grandi Funzioni Urbane, con la specifica che queste ultime non necessariamente devono essere funzioni pubbliche ma possono essere anche funzioni private d’interesse strategico. Prevale il principio dell’indifferenza funzionale, ossia senza vincoli tra destinazioni d’uso, funzione e risultato delle trasformazioni, con la conseguenza che aree come gli Scali o Piazza d’Armi, che per oltre un secolo sono state aree di proprietà del demanio statale, possano essere destinate in toto o in parte a interventi privati, con forte presenza di residenziale “selezionato”.
Non ci dimentichiamo di Città Studi, della fine che faranno aree ed edifici, se, come ormai probabile, fosse realizzato il trasferimento delle Facoltà Scientifiche ad Arexpo. Scelta frutto dei debiti di Expo e della volontà di mettere a reddito un’area semicentrale che può garantire alte rendite immobiliari e non certo volontà di migliorare la qualità dello studio o di vivibilità dei quartieri limitrofi. In sostanza milioni di metri cubi di nuovo edificato in una città che avrebbe bisogno invece di verde e boschi urbani, di spazi vuoti, di meno cemento, per rendere un po’ più salubre il vivere quotidiano dei milanesi. E se i parchi previsti sono quelli legati agli interventi edificativi, abbiamo buoni motivi per dire che sarà più verde condominiale o “privato attraversabile” che “spazio pubblico” come dovrebbero esserlo sempre i parchi urbani.
Concludendo, se c’è un progetto che simboleggia questo PGT, è quello della (finta) riapertura dei Navigli…in realtà di 5 tratti del solo Martesana in direzione della Darsena o della retorica sul processo partecipativo, ridotto a mero strumento di governance e orientamento del consenso. Partecipazione che in realtà è stata solo annunciata (“faremo un nuovo Referendum cittadino” dicevano), poi ridotta a uno pseudo Debat Public, dove gli organizzatori coincidevano con i promotori del progetto, arrivando a mentire anche sul significato del referendum votato dai milanesi nel 2011 (mentre s’ignora ostinatamente il contestuale referendum sulla destinazione a verde di Arexpo!) che non concerneva il progetto Navigli presentato nei mesi scorsi.
Milano deve attrarre sempre più turisti, ricchi aggiungiamo noi, contendendoli alle altre metropoli globali, in un trionfo di non-luoghi tutti uguali, perché questo turismo vuole trovare le stesse cose a Milano, come a Londra, Barcellona, New York o Pechino. Ciliegina sulla torta il fatto che gli stessi promotori ammettano che a beneficiare della riapertura saranno le rendite immobiliari, tradotto case più care da affittare su AirBnB e non certo a chi cerca casa a Milano, giovane, precario, famiglia, anziani o migranti che siano.
Ecco il senso di questo PGT: ultimare la svendita della città e pensare a una Milano 2030 a misura di turista o di ricchi, con l’inevitabile aumento delle distanze sociali, economiche e di qualità della vita, tra le zone centrali e le periferie. Una città ostile ai suoi abitanti e dove il Diritto alla Città e il Diritto all’Abitare potranno tornare a essere tali solo attraverso la lotta e il conflitto sociale.
Lab Off Topic
Il 15 novembre dalle 17.30, saremo sotto le finestre di Palazzo Marino per contestare il Progetto Navigli e il modello di città che il nuovo PGT esalta. Crediamo sia un’occasione importante per dare visibilità alla Milano che non crede alle favole e che vuole un’altra città, pubblica, salubre, ambientalmente sostenibile, inclusiva, ricca per le relazioni sociali di chi la vive e non per le rendite fondiarie di chi vi specula o per i grandi eventi che organizza.
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DOCUMENTAZIONE UFFICIALE
Milano 2030
Documento di Piano
Obiettivi PGT e VAS
Procedimento