Il testo che abbiamo scritto contro lo sgombero di Macao. Letto a Milano, fuori da Palazzo Marino, in occasione del presidio dello scorso 5 ottobre.
Il fondo Comune di Milano I, destinato agli investitori istituzionali, è stato costituito nel 2008 e ha in portafoglio asset per 194 milioni di euro. Il fondo Comune di Milano II è stato invece lanciato nel 2010 e ha un valore di 123 milioni di di euro. Il comparto include 61 asset, con un’occupancy rate del 26%.
Bello questo concetto. Di base l’occupancy rate è il tasso di utilizzo (formale e non) di spazi, sul totale del pacchetto in dismissione. A me piace immaginarlo più come la riottosità di un territorio inselvatichito ad essere occupato da un nuovo feudatario. La città, fatevene una ragione, non è fatta solo di vuoti e di pieni, di giustizieri e mascalzoni, di guardie (a difesa della proprietà) e di ladri. Mentre la città esclusiva è per definizione escludente, la città che conosciamo e attraversiamo vive di zone di confine: margini geografici e “posture sociali” irriducibili ai concetti di decoro, legalità, giustizia…alla vostra stessa idea di bellezza.
Forse, quando il soggetto in vendita è Milano stessa, bisognerebbe piuttosto pensare a come supportare l’occupancy rate della metropoli, l’unico tasso in grado di misurare quanto siamo indiciplinate di fronte all’economia della promessa e all’inevitabilità del suo tradimento. All’asta gli scali ferroviari, a bando 23 caserme della città, ceduto al consolato USA l’ex tiro a segno nazionale e sacrificata città studi, a gara l’ex piazza d’armi, in dismissione le scuderie de montel e il mercato di gorla tra le 5 grandi aree del sostenibile e resiliente progetto reinventing cities, in via di cessione i due fondi immobiliari (di cui Macao è lo spigolo appuntito che buca la busta degli affari) per un valore complessivo di oltre 300 mln.
In vendita i dati sui nostri comportamenti di tutti i giorni: dove vado quando evado, cosa mangio e quando mangio, quanto dormo quando dormo.
In vendita i parchi urbani che sono sostituiti da giardini verticali, in vendita le panchine di legno o i marciapiedi infestati da dissuasori per evitare che la povertà disturbi gli sguardi sensibili della Milano bene. In vendita il brand urbano che ieri aveva il sapore di expo e domani quello dei giochi olimpici pronti a divorare l’arco alpino.
In vendita i navigli sacrificati sull’altare della rendita di posizione, che si scoperchiano (lo dice lo studio di fattibilità, mica io) perché così il valore degli appartamenti limitrofi lievita come impastato col lievito.
In vendita vorticosa sono le nuove case del centro a 10mila al metro quadro, mentre il resto della città annega nella bolla dell’affitto e nei mutui fine pena mai. In vendita l’ortomercato e in vendita pure Macao, che non è come gli altri sozzoni ma nemmeno si adatta alla civiltà della sinistra neoliberale.
Non è tema tecnico di mancati trasferimenti statali, non solo ghiottoneria e corruzione, la vostra rovina sarà il pregiudizio che il privato possa “produrre la città”, fare città, meglio del pubblico. Che poi magari è pure vero per quanto si somigliano…ma noi non siamo il pubblico, noi siamo il comune. Quello scritto in minuscolo, che si colloca e si convoca in strada piuttosto che nel palazzo.
Noi siamo i sopravvissuti alla settimana della moda, del food, della fotografia, dell’arte, al salone, al fuorisalone, al tempo dei libri e al tempo di attesa dell’80 notturno.
Nel 1967, a pochi mesi dal Maggio francese, Henry Lefebvre scriveva che il “diritto alla città”, lemma caro alla riflessione del Lab. Off Topic, non è solo vertenza e rivendicazione. Piuttosto creatività, capacità immaginativa, frattura della noia che è figlia della consuetudine. Otium artistico in opposizione alla produttività meneghina, in sostanza nuova forma di cittadinanza. Non diceva esattamente così ma il senso era questo, credo. Macao non ha bisogno di ringraziamenti ma di un solidale megafono umano.
Di fronte alla mostruosità di una metropoli pacificata, che la sua voce s’impenni nuovamente di decibel.