Il 18 aprile 2024 il Consiglio Comunale di Milano ha approvato le modifiche statutarie di MilanoSport, che mutano in maniera sostanziale la natura e il raggio operativo della controllata da Palazzo Marino, divenuta Società Sportiva dilettantesca. Si tratta della risposta locale alla recente riforma dello Sport, i cui effetti quanto meno complicavano la gestione di impianti da parte di una semplice Spa (da cui la necessità di divenire SSD Spa). Di conseguenza, oggi MilanoSport SSD Spa potrà, in qualità di datore di lavoro sportivo, gestire direttamente i contratti di lavoro con quella categoria giuridicamente nata in sede di riforma dello sport, ovvero il lavoratore sportivo. Prima di provare a delineare gli effetti di questa riforma statutaria, va considerato come questo passaggio in sostanza evita (per quanto per alcuni solo temporaneamente) lo smantellamento degli impianti sportivi di proprietà comunale, auspicato da una parte della città che lucra sull’attività ginnica a costi a volte irragionevoli in strutture che sembrano più dei villaggi vacanza che dei centri sportivi. Non è un caso che una parte del consiglio comunale si sia posta in maniera per lo meno scettica dinanzi a questa trasformazione, tirando in ballo i costi dell’operazione e la non competenza della partecipata rispetto alla gestione diretta delle attività, proprio per sostenere le istanze del privato già egemone nel settore. Allo stesso tempo, questa scialuppa di salvataggio può divenire un modo per procedere ad uno smantellamento più razionale del patrimonio di impianti sportivi della città, mercato non certo in espansione in questa fase e su cui i privati potrebbero essere interessati a investire solamente se tutelati nelle eventuali perdite dal pubblico – come da tradizione nazionale.
Al netto di queste preliminari considerazioni cosa sta quindi accadendo?
Cos’è MilanoSport
MilanoSport gestisce gli impianti sportivi della città dal 1964 e, ad oggi, ha un contratto come da proroga del 2018, fino al 2050: 27 impianti distribuiti su tutto il territorio comunale, suddivisi in: 12 piscine, 8 centri sportivi fra cui Saini – ora rilasciato e destinato in concessione all’Università Statale di Milano – Carraro, De Nicola e Cappelli, al momento non utilizzati; 1 centro tennis, 1 centro balneare, 1 grande impianto, l’Allianz Cloud Arena, ex Palalido, e il velodromo Vigorelli. Al momento, in funzione non c’è nessuna piscina idonea ad ospitare competizioni sportive.
Il post Covid ha invece privato la città di alcune piscine ben note e molto frequentate, ora in mani private, seppure ancora chiuse: Argelati (concessione a privati che prevede un’imponente ristrutturazione), Suzzani (riqualificazione), Lido (vendita a privati e riapertura non prima del 2026), Scarioni (partenariato pubblico-privato). Si tratta degli impianti più appetibili e quindi posizionabili facilmente sul mercato, anche se i tempi sin qui delineati per le possibili riaperture in veste privata, grosso modo modello Bagni Misteriosi, non sono particolarmente rassicuranti, in nessun caso. Fuori dall’orbita MilanoSport, anche se vi potrebbe presto rientrare, è il PalaAgorà di Via dei Ciclamini, un palaghiaccio nella città delle Olimpiadi invernali finito nel vortice della malagestione ed ora inattivo da mesi, così come accaduto ai già citati Carraro (ormai da anni), De Nicola e Cappelli (lo storico impianto dell’ASD Savorelli); o come accaduto al Centro Sportivo Muggiano, dal prossimo settembre nuovamente in attività grazie al recupero di Milanosport. Oltre alle dismissioni, quindi, Milanosport ha gestito negli ultimi anni e sta al momento gestendo recuperi di impianti storici presenti in città, come nel caso della Piscina Cambini, da oltre 25 anni dismessa, poi recuperata e riaperta due anni fa con intervento e importante finanziamento del Comune.
Operazione che ha restituito alla zona di Via Padova un importante punto di riferimento riguardo all’attività sportiva.
Proprio le vicende degli impianti selezionati hanno recentemente offerto il fianco a coloro che intendono MilanoSport come una sorta di bad company a cui affidare le esperienze fallimentari e da cui invece rilevare le attività più remunerative – visione che verrà smentita o confermata nei prossimi anni.
Le critiche a MilanoSport come tipologia teorica di società, e non tanto come realtà fattuale, ricalcano in genere i dettami del libero mercato anni Ottanta, quello che ha prodotto lo svuotamento di un sistema pubblico che, con tutte le sue linee di frattura ed esclusione, oltre che clientelismo, salvaguardava però un principio di solidarietà sociale oggi inesistente e anzi criminalizzato. La già ricordata proroga al 2050 è stata a fine 2023 criticata dalla Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, ricettacolo di liberisti à la page: gli impianti privati o in concessione dal pubblico sono ben più numerosi, a garanzia di una libertà di scelta sin troppo vasta se si ha facoltà di spesa, ma limitata per i redditi bassi e medio-bassi. Sono critiche simili a quelle in atto rispetto alla concessione dei trasporti urbani ad ATM Spa, in funzione dello smantellamento di quello che in pratica è rimasto l’ultimo strumento utile per mantenere il servizio pubblico in mani non private: l’affidamento in house. Piuttosto, l’Autorità potrebbe rilevare come in città, chiusa temporaneamente la Saini, non esista una piscina con idoneità alle competizioni FIN, certo non oggetto di interesse del mercato, pertanto necessariamente figlia non delle dinamiche benefiche della concorrenza ma dell’intervento pubblico a soddisfare un preciso bisogno sportivo. Per quanto si faccia il tifo per il mercato, quindi, occorre rispondere all’esigenza di impianti con maggiori costi e minori potenzialità di ricavi, sostenibili pare, al momento, solo da aziende pubbliche. O in alternativa direttamente dall’ente locale, scelta probabilmente preferibile per quanto fuori dai radar del dibattito pubblico.
Siamo davanti ad un carrozzone antieconomico?
Altra critica frequente è quella riferita alla onerosità del servizio e ai conseguenti buchi di gestione di MilanoSport, non certo dovuti ad una crisi: l’aumento degli ingressi racconta altro, di un servizio appetibile per qualsiasi operatore di mercato ben disposto. Si tratta allora forse di un’attività avviata con problemi di spesa incontrollata? La società controllata in realtà paga il minimo i propri dipendenti e limita le opere di ristrutturazione allo stretto necessario, pertanto il buco alle volte denunciato è dovuto ai bassi costi di accesso: 7 euro per le piscine è un prezzo più basso di quel che si paga in molti comuni dell’hinterland e, da quel che ci risulta, nel resto del paese. E’ vero che per esempio città con costi della vita simili o maggiori di quelli milanesi come Londra e Berlino offrono prezzi più bassi, ma ciò accade non certo grazie all’efficienza realizzata nell’organizzazione del servizio, ma per una precisa scelta di politica pubblica che, anche in città non certo socialiste come quelle citate, decide di investire su un valore pubblico quale l’attività natatoria per tutt*. Come sulla sanità, il trasporto pubblico locale e il settore educativo, la retorica e la propaganda (neo)liberale contro il pubblico punta il dito sul costo di accesso, che da sempre è a garanzia della maggiore universalità possibile nella fruizione di una prestazione che dovrebbe definire la qualità della vita di un territorio, e non del pareggio di bilancio dell’attività – invece definita secondo il criterio aziendale. La sostenibilità economica di un servizio deve essere garantita non dalla limitazione di accesso dei singoli, ma dalla fiscalità generale: non è chiaro perché sia un problema un negativo di qualche milione di euro in una città dove l’imposta municipale unica, pagata dai multiproprietari di immobili, cuba più di 700 milioni di euro l’anno; la risposta dovrebbe essere incrementare eventualmente le entrate imponendo imposte più alte (in maniera progressiva in base alle quantità di immobili posseduti). Si sottolinea, infine, come la presenza di una importante offerta sul servizio a prezzi calmierati rappresenta un deterrente anche per gli operatori privati nell’imporre una dinamica al rialzo costante dei costi, come accade in un regime di mercato incontrollato.
Il nuovo statuto
Se volessimo riassumere in maniera spicciola cosa ha spinto questa trasformazione potremmo affermare: la coercizione dettata da una riforma e la possibilità, diventando una SSD, di non pagare l’IVA. Ovviamente nell’operazione c’è molto altro, il fatto però di non far versare al consumatore finale l’imposta sul valore aggiunto permette alla società di tenerlo in cassa, considerando che le tariffe verosimilmente rimarranno per lo più le medesime con in aggiunta una nuova offerta, grazie alla quale il costo del biglietto sarà collegato all’ISEE, rendendo progressiva la dazione in cambio dell’accesso alle strutture. Un’idea condivisibile, fedele allo spirito di servizio pubblico, che si accompagnerà a modifiche rispetto ai servizi utilizzati, tra cui docce e phon che, da quel che si apprende, diverranno a pagamento (a consumo) ovunque. Vi sarà anche una differenziazione zonale sul costo del biglietto fra piscine del centro e periferiche, con quest’ultime che diverranno più economiche e, si presume, destinatarie di minor risorse – logica miope che non tiene conto del pendolarismo urbano e del possibile utilizzo nelle pause o nel dopolavoro degli impianti centrali. La medesima logica da flat tax ispira anche la gratuità generale dei corsi per minori al di sotto dei 7 anni, mentre la progressività imposta al calcolo del prezzo di ingresso dovrebbe garantire gratuità a chi ne ha bisogno mentre chi non ne ha bisogno sarebbe corretto pagasse.
Cosa cambia per lavoratori e lavoratrici
Innanzitutto cambia il datore di lavoro. In particolare, riferendosi alle piscine, per gli istruttori in precedenza si utilizzava un intermediario, la FIN – Federazione Italiana Nuoto. Ora i/le lavorator* dipenderanno direttamente da MilanoSport, che potrà intervenire direttamente sulle scelte e la formazione, così come erogare salari in grado di competere col resto dell’offerta lavorativa in città-che come poi anche a livello nazionale, nell’ambito del lavoro sportivo,, non è certo noto per le condizioni favorevoli ai/alle dipendenti. In teoria, non sarà difficile offrire condizioni migliori di quel che mediamente accade, ma in pratica la controllata del Comune di Milano continuerà a sottostare agli equilibri di bilancio e un eventuale maggiore investimento sul settore sarà fatto pesare su altro. Scelta ampiamente possibile. Al momento emerge più chiaramente la situazione di un numero limitato di lavorator* -che passano comunque da 130 a 170 a tempo indeterminato, subordinato direttamente a MilanoSport, e un numero più importante (circa 400) si ritroverà nel meno tutelato regime di collaborazione.
Cosa cambia per l’utenza
Il costo d’ingresso, come detto, si definirà in base al reddito. Ciò cela comunque un aumento per coloro che possiedono ISEE più rilevanti (condivisibile) o che non lo possiedono per ragioni varie (meno condivisibile); così come alcune misure flat e non progressive, come la gratuità per bambini fino ai 7 anni, ribadiamo, è poco utile perché flat e non progressiva: ci si priva di entrate di utenza che potrebbe tranquillamente pagare ed il versato sarebbe utile a migliorare il servizio, un fattore per alcuni anche più rilevante del costo di accesso. Per quanto possiamo intendere e comprendere che l’esenzione citata abbia il merito di privilegiare l’aspetto educativo e di incoraggiamento all’avvio di una attività sportiva salutare. Detto anche dei costi aggiunti su servizi integrativi quali le docce e gli asciugacapelli, altro elemento da considerare è il possibile aumento dell’offerta di impianti sportivi rilevati e gestiti direttamente da MilanoSport conseguenze di insostenibilità o mala gestione varia. Negli ultimi due anni, infine, MilanoSport suo malgrado è stata costretta a rilevare importanti impianti dati in concessione per (sempre più frequenti) motivi dovuti alla malagestione del concessionario: oggi questa attività può divenire operativa poiché per la controllata è possibile direttamente gestire gli impianti e, di conseguenza, fornire attività e personale adeguato; ciò espone l’azienda a costi per sopperire al danno d’immagine dell’impianto e all’eredità della gestione precedente. Inoltre, alle volte la crisi degli impianti è dovuta anche alle scarse possibilità di questi di essere profittevoli, per via di differenti motivi (la posizione dell’impianto, i costi imposti dalle strutture, la concorrenza di prossimità, la tendenza all’abbandono dell’attività ospitata). Uno dei modi per rendere sostenibili questi investimenti è quello di vendere invece impianti appetibili, col conseguente rischio di prendere le forme, ripetiamo, della bad company dello sport in città, con costi pubblici che potrebbero divenire poco compresi anche dall’utenza.
Quale prospettiva
In balia delle amministrazioni di turno, al centro di pressioni stimolate anche dall’industria dello sport privato, con potenzialità che dipendono molto da quanto l’azienda riuscirà a divenire punto di riferimento per l’attività sportiva di base: Questi sono gli argomenti principali che condizioneranno la rinascita di MilanoSport e della gestione pubblica dello sport in città. Gli esterofili continueranno a citare Berlino, Londra o casi di gestione dello sport nelle grandi metropoli si neoliberali ma anche promotrici di politiche pubbliche mirate al consolidamento del welfare (anche se non immuni ad attacchi consistenti che regolarmente avvengono anche a quelle latitudini). Un punto di svolta per questa nuova fase sarà sicuramente la presentazione del piano economico finanziario, da cui si potrà comprendere se si tratta di una dismissione razionalizzata o di un rilancio possibile dell’attività sportiva di base, accessibile e di qualità o, più probabilmente, una via di mezzo fra le due precedenti ipotesi. Anche un buon piano economico finanziario però non può tutelare la popolazione, soprattutto quella a basso reddito,da possibili future dismissioni: ad ogni crisi, come accade per il resto del servizio pubblico, pezzi importanti del sistema sport verranno messi in discussione e, di conseguenza, un ruolo fondamentale sarà svolto proprio dall’utenza chiamata a farsi carico del servizio e dei suoi fallimenti programmati. Gli impianti sportivi pubblici devono tornare ad essere realmente pubblici e, anzi, vogliamo osare di più: comuni, nel senso, capillare e a garanzia del loro accesso universale: è arrivato il momento, a livello di dibattito pubblico e all’interno dell’ ambito delle comunità resistenti, di prendersi a cuore anche questo tema troppo spesso lasciato nelle mani dei grandi interessi dello sport privato e della spending review del soggetto pubblico. Molt* di noi lo sanno, in particolare le collettività e le comunità dello sport popolare: le attività sportive, di tutti i tipi, sono da sempre elemento di aggregazione comunitaria e luogo di costruzione di legami solidali, un’autodifesa reale contro le violenze economiche del mercato sui ceti popolari e le emarginazioni nei quartieri. E nella Milano della lunga bolla del mattone, che si prepara già al dopo-Sala e al megaevento olimpico, quello dell’accesso ai servizi sportivi e della chiusura/privatizzazione di spazi dedicati allo sport nei territori è tema centrale in qualunque discorso presente e futuro sul diritto alla città.