Le notizie milanesi di ieri – +40% in più di costi per il PalaItalia a Santa Giulia, costi lievitati e dubbi sui tempi per la ristrutturazione del Palasharp – sono solo le ultime in termini di tempo riferite a impianti, opere e infrastrutture previste per le Olimpiadi Milano-Cortina 2026 dove si annunciano costi lievitati dal 30% al 50%, ritardi sui tempi, necessità di procedere con dispositivi d’emergenza. Dalla pista di bob a Cortina alle infrastrutture viabilistiche in Lombardia e Veneto, passando per il Villaggio Olimpico di Milano, l’elenco potrebbe essere lungo e fornire dati preoccupanti rispetto ai costi effettivi del grande evento.
Parliamo tra tutto di oltre 10-12 miliardi di opere a vario titolo necessarie o connesse ai Giochi invernali. E a questo proposito dobbiamo sempre tenere presente un altro elemento: nella suddivisione delle opere olimpiche incluse nel Piano nazionale degli interventi approvato dalla presidenza del Consiglio il 26 settembre 2022, le opere definite “essenziali-indifferibili” (cioè con consegna inderogabile entro dicembre 2025) riguardano meno del 13% del budget complessivo, mentre quelle “essenziali”, che pesano per oltre l’87% dell’ammontare, potranno essere realizzate anche solo per “stralci funzionali” – quindi la loro consegna reale si effettuerà a Olimpiadi concluse, rivelando la funzione di volano che anche questo Grande Evento svolge nel nostro modello nazionale di capitalismo predatorio.
Non è una novità, semmai una prassi consolidata di tutte le rassegne olimpiche degli ultimi decenni: in media il 142% in più dei costi iniziali preventivati e una tradizione specifica del nostro Paese quando si parla di grandi eventi, che siano Mondiali di calcio o di nuoto, Olimpiadi oppure Expo. Spesa (pubblica per il 96% del totale) che lievita non solo per effetto dell’inflazione e della speculazione sulle materie prime, ma per la consolidata prassi di inserire nei dossier delle opere da finanziare, interventi e infrastrutture che nulla hanno a che fare con l’evento da organizzare, come è stata anche con il Decreto Olimpiadi. Con l’aggravante che agli extracosti si sommano i danni causati dall’adozione di procedure emergenziali per recuperare ritardi, avendo così modo di aggirare e sottrarsi a valutazioni ambientali, norme su appalti e cantieri, standard di sicurezza. Il commissariamento de iure della governance territoriale e amministrativa, con la sospensione delle procedure che teoricamente in una democrazia liberale rappresentano la funzione di controllo – salvo che è lo stesso liberalismo a decretarne il superamento qualora considerato un ostacolo all’accaparramento e all’accumulazione selvaggia.
L’insostenibilità dell’operazione si mostra giorno dopo giorno all’opinione pubblica, malgrado la narrazione ufficiale provi a nasconderla dietro una macchina del consenso fatta più di marketing e immagini fittizie che di realtà. La recente alluvione in Emilia-Romagna è solo l’ultimo, ma non sarà l’ultimo, dei disastri che ci dicono quali dovrebbero essere le priorità e di come il territorio non possa sopportare altro cemento, asfalto e devastazione per eventi effimeri a profitto privato. Da questo punto di vista, la destra negazionista del cambiamento climatico e il centro-sinistra del greenwashing, del green capitalism, convergono su un modello di sviluppo che, come dicevamo anni fa per l’Expo a tema food, saccheggia e affama il pianeta per nutrire gli interessi di pochi. Il tempo di agire è ora: se non possiamo impedire la sciagura olimpica, siamo però ancora in tempo per bloccare i molti tentacoli – infrastrutturali, economici e turistici – che la sostengono, per salvaguardare i territori e le collettività che li abitano.