La città e i movimenti. Senza mediazioni: riprendiamoci lo spazio urbano.

Con questa puntata termina il nostro approfondimento su Milano, con uno sguardo ai progetti relativi alle grande aree urbane in trasformazione e, soprattutto, a individuare alcuni spunti e contributi che possano diventare, insieme ad altri, terreno di ricomposizione e convergenza delle lotte, per ridare linfa a quel conflitto sociale necessario e non più differibile per riaffermare il primato della Città Pubblica e il diritto ad abitarla senza mediazioni, né cedere il passo ad alcun fittizio percorso di “partecipazione” dall’alto.

LE GRANDI AREE DI TRASFORMAZIONE 

Parlare di aree in trasformazione a Milano è quasi eufemistico, si farebbe prima a dire quali non lo sono, viste le decine di gru che caratterizzano lo skyline urbano. Ma è evidente che alcune aree e progetti, più di altri, hanno e avranno un ruolo determinante nel delineare la città dei prossimi decenni. Dati per realizzati, anche se ci sono ancore comparti in via di completamento, Citylife, Garibaldi-Porta Nuova-Gioia e Cascina Merlata e in via di riconversione Arexpo, con un destino ancora da capire per lo stadio di San Siro e relativo piazzale antistante e per quel che residua degli impianti ippici, le grandi operazioni di sviluppo immobiliare si concentrano oggi sugli ex scali ferroviari e sul completamento dell’area di Santa Giulia.

Sono 7 gli ex scali ferroviari di cui un Accordo di Programma del 2017 sanciva la fine del loro utilizzo e proprietà da parte del demanio ferroviario e l’avvio di altrettanti bandi per la riconversione in qualcos’altro, leggi edificati, o in strumenti di perequazione secondo le norme del PGT, per consentire maggiori edificazioni su altre aree. Gli scali in questione sono Farini, Romana, Porta Genova, San Cristoforo, Lambrate, Rogoredo, Greco. Potevano diventare, come accaduto in altre metropoli, squarci di natura spontanea che si stavano riappropriando dei residuati delle infrastrutture al servizio della Milano industriale che fu e occasione per sperimentare nelle volumetrie esistenti, funzioni e utilizzi al servizio della città pubblica o in autogestione da parte della stessa. Ma hanno prevalso le logiche della rendita fondiaria e del consumo di suolo, per un’operazione complessiva che andrà ben oltre i 2 mld di investimenti su una superficie complessiva di 1,3 mln di mq. Eppure, nonostante i prezzi a saldo, le indubbie agevolazioni delle Amministrazioni Comunali e un supporto a colpi di greenwashing e fantomatici rendering, che ha trasformato quelle che saranno operazioni di sviluppo immobiliare in interventi di protezionismo ambientale (vengono venduti come nuovi parchi quelli che saranno giardini condominiali o verde d’arredo perlopiù), ci sono volute le Olimpiadi e quindi un nuovo impulso anche economico delle casse pubbliche perché iniziasse, aggiungiamo purtroppo, la riconversione dello Scalo Romana (dove appunto sorgerà il Villaggio Olimpico e poi un nuovo quartiere residenziale, con annessi spazi commerciali e studentati) a opera della cordata Coima-Covivio-Fondazione Prada.

Gli altri 6 scali, per quanto già venduti, a eccezione di Porta Genova (ma già è noto che l’area sarà edificabile), sono ancora nelle condizioni o quasi in cui erano al momento in cui Comune, Regione, Ferrovie e Savills Investment Management Sgr firmarono l’Accordo di Programma. Questo per dire che una città in grado di esprimere una forte capacità di rivendicazione e conflittualità (un pò come fu la lotta No Canal che seppe vincere con parole d’ordine e pratiche radicali contro la macchina organizzativa di Expo 2015, bloccando e contribuendo a far rinunciare al progetto della Via d’Acqua nei parchi della periferia ovest di Milano) potrebbe ancora intervenire a mutare un destino che invece sembra segnato.

Sullo scalo Farini, il più grande con i suoi oltre 600.000 mq di superficie.oltre all’ennesimo nuovo quartiere e relativo mix di servizi commerciali, sorgerà la nuova sede dell’Accademia di Brera e di UniCredit, che dopo nemmeno due decenni abbandonerà la torre di Piazza Gae Aulenti. Lo scalo San Cristoforo sarà l’unico non cementificato e servirà da scomputo oneri di urbanizzazione per il verde che gli standard non soddisfano sullo scalo Farini (alla faccia dei progetti verdi e a zero consumo di suolo). Gli scale Greco e Rogoredo, invece, saranno “lottizzati” da Redo Sgr, con interventi di housing sociale, e sempre un mix di residenza caratterizzerà l’intervento sullo scalo Lambrate. 

Quello che sicuramente l’operazione scali ha già generato è un effetto al rialzo dei valori degli immobili nei quartieri nelle immediate adiacenza e, a conferma del male che una certa narrazione della città fa al diritto all’abitare, “vendere” la vicinanza a uno scalo fa parte delle priorità oggi degli operatori del mercato immobiliare, come è facilmente verificabile consultando il noto sito di settore idealista.it. La crescita è più visibile e forte attorno allo scalo Romana, anche per il richiama olimpico, ma i prezzi crescono più della media anche nei pressi dello scalo Greco che non vedrà la sua trasformazione prima di 6/7 anni. La crescita dei valori va dal +28% in zona Greco al +60% in zona scalo Farini, passando dal +42% in zona scalo Romana e crescite simili si registrano anche lato canoni d’affitto. 

Santa Giulia è, appunto, l’altra grande area di trasformazione, la grande incompiuta degli anni zero, i cui lavori negli anni hanno subito prima lo stop per i costi enormi delle bonifiche poi quello del fallimento di Zunino, l’immobiliarista a capo di Risanamento Spa che possedeva area e diritti. Rilevata l’area da Landlease, il progetto di riconversione, uno dei più grandi progetti di rigenerazione di un’ex area industriale d’Italia, ha avuto nuove spinte, grazie anche alla sponda data dalle Olimpiadi con la destinazione di parte dell’area per edificare il PalaItalia. Complessivamente parliamo di un’area di 1 mln di mq che a fine lavori verrà edificata con indici edificatori altissimi (0,7 mq/mq) che porteranno alla realizzazione di 3500, prevalentemente di edilizia residenziale libera, aree commerciali, la nuova sede del Conservatorio e relativo campus e il già citato PalaItalia. Da sottolineare che a fronte della disponibilità dell’operatore privato a costruire quest’ultimo per i Giochi 2026, sono state concesse maggiori volumetrie residenziali rispetto a quelle originariamente previste dal progetto.

CHE FARE?

Sarebbero tante le questioni da affrontare, alcune insite nel DNA stesso del Paese a partire dal fatto che dal boom economico in avanti la ricchezza legata al mattone è uno dei pilastri che costituiscono l’identità nazionale, al punto di rendere quasi un fattore di insuccesso personale l’abitare in affitto. Sicuramente servirebbe scardinare il sistema delle rendite passive legate alle concentrazioni di proprietà immobiliari o, peggio, quelle derivanti da affitti in nero, entrambi aspetti su cui la classe politica italiana si è sempre ben guardata dall’intervenire, a partire da vere e propri provvedimenti di tipo patrimoniale a ricavare risorse per l’edilizia pubblica. Analogamente servirebbe un intervento che monitori e attui politiche fiscali adeguate sugli alloggi vuoti. Ma siamo al livello delle aspettative che da anni attendono di essere realizzate. Il “modello Milano”, al di là di quanto accadrà per effetto delle inchieste giudiziarie o di mutamenti del quadro politico-istituzionale, va contrastato ora – sarebbe stato meglio contrastarlo sul nascere -, prima che si compia la definitiva predazione della città e l’irreversibilità di quei processi che già oggi generano lo sfruttamento e l’espulsione dalla dei soggetti sociali a reddito medio-basso, basso o nullo.

Serve intervenire innanzitutto sul sistema urbano esistente per incidere sui meccanismi che generano la crescita oltre i limiti sostenibili dei valori immobiliari. Alcuni esempi: blocco “politico” del valore degli affitti; emersione degli affitti in nero; analisi delle proprietà immobiliari nelle zone “topiche” della città, per esempio attorno alle Università o ai poli sanitari d’eccellenza; mappatura degli appartamenti vuoti ed esproprio delle grandi proprietà immobiliari inutilizzate, un vero stop al consumo di suolo e anche al consumo di spazio verticale. Sono solo alcune cose tra le tante che sul piano del riformismo potrebbero migliorare la condizione abitativa a Milano. Ma non bastano.

Al quartiere Corvetto c’è una scritta su un palazzo che recita: “le scritte sui muri fanno abbassare gli affitti”. Ecco, in questa frase sta il senso di cosa voglia dire oggi lottare contro il “modello Milano”. Serve lavorare ad un livello più alto, decostruire l’immaginario alimentato in questi decenni di Milano “a place to be”, “città top per qualità della vita”, della retorica del decoro e della città attrattiva. Mettere in atto azioni e processi che ostacolino i fenomeni di gentrificazione dietro cui sfuggono a ogni trasparenza i meccanismi di investimento, programmazione e pianificazione. Occorre mettere in campo parallelamente una forte capacità di intelligenza collettiva capace di elaborare nuovi immaginari e una diffusa, costante, coordinata conflittualità urbana. Su questo terreno nessuno è o può ritenersi autosufficiente. Comitati di lotta per la casa, spazi sociali, climattivismo, collettivi di lavoratrici e lavoratori precari, comitati territoriali: serve che tutte le soggettività e le collettive che, nella loro eterogeneità, hanno in questi anni provato a contrastare il modello di città che Milano perseguiva provino ad accantonare diffidenze, differenze, distanze con un obiettivo comune: riprendersi Milano, lo spazio urbano e spazi di vita, senza mediazioni o compromessi, stando fuori e contro qualunque percorso di partecipazione fittizia che arrivi dall’alto.

Non c’è più nulla da sperimentare nè benefici del dubbio da concedere al riformismo meneghino – molto annacquato: negli ultimi 13 anni non ci sono mai stati così tanti ex militanti di movimento o riformatori radicali al governo (apparente) della città, eppure la conservazione è riuscita a mantenersi salda nei luoghi del comando, facilitata dal compromesso – senza riforme – accettato proprio da una società civile un tempo bacino di pensiero e atteggiamenti d’opposizione, ma che in nome di un supposto “realismo critico” è stata assorbita nella più asfissiante delle cappe conformiste che dominano il cielo bianco di Milano – il sonno della ragione genera consenso, ha detto qualcun* (“Cheap. Disobbedite con generosità”). Se quella carica di cambiamento si è dunque esaurita e ha accettato la dissoluzione al centro – politico e urbano -, allora c’è da costruire una base sociale per la prossima rivolta, tra gli esclusi e le escluse che da questo modello sociale non hanno nulla da guadagnare ma solo da perdere – l’unica programmazione urbana che sembra essere rimasta è quella di chi è destinato a essere perdente – e viceversa, per parafrasare un antico motto del movimento rivoluzionario, dal suo tramonto hanno un’intera città da abitare, vivere, attraversare, desiderare liberamente e totalmente.