Tre fatti politico-giudiziari sono avvenuti a dicembre 2019, momenti di vicende processuali diverse iniziate mesi e anni prima, ma che ci chiamano direttamente in causa.
Il 12 dicembre è stata emessa la sentenza d’appello del tribunale di Roma nei confronti delle compagne e dei compagni accusati per la giornata nazionale di protesta e rivolta del 15 ottobre 2011, in cui il Procuratore Generale ha ribadito la necessità di applicare il reato di “devastazione e saccheggio” (introdotto dal Codice Penale Rocco nel 1931) per gli imputati. Erano i giorni in cui la crisi economica s’abbatteva anche sull’Europa e sull’Italia con estrema violenza, le settimane della famosa “lettera alla BCE”, delle misure di austerità lacrime e sangue da attuare per rimediare ai presunti errori finanziari di un intero popolo: la risposta, eterogenea, dirompente, quanto radicale che si produsse a Roma, dove 300 mila persone componevano il corteo più numeroso e arrabbiato tra quelli che si svolgevano in contemporanea in tutta Europa, nacque dopo che la manifestazione, che voleva raggiungere i palazzi del potere, era stata troncata in due dall’aggressione a freddo delle forze dell’ordine. Seguirono ore di resistenza in piazza San Giovanni.
Il 18 dicembre la PM del tribunale torinese Emanuela Pedrotta ha deciso di emettere entro 90 giorni il parere definitivo circa l’applicazione o meno a Eddi, Paolo e Jacopo della misura preventiva di “sorveglianza speciale”, anch’essa introdotta nel sistema giuridico durante il regime fascista. La vicenda va ormai avanti da un anno, coinvolgendo inizialmente anche altri militanti internazionalisti, ritenuti “pericolosi socialmente” per la loro partecipazione alle Unità di autodifesa curdo-siriane o alle strutture civili della rivoluzione confederale. La pericolosità, però, gli deriverebbe dall’incrocio di questa loro scelta con la precedente partecipazione a iniziative di lotta politica su altre vertenze.
Infine, il 30 dicembre, sempre la procura sabauda, ha deciso di notifcare la sospensione delle misure alternative alla storica militante No Tav Nicoletta Dosio (che comunque non le aveva mai chieste e anzi rifiutate, in nome della illegittimità della condanna), arrestata per scontare una pena definitiva di un anno, basata tutta sul concorso morale (altro reato previsto dalla normativa del Ventennio) per un’iniziativa di protesta avvenuta in seguito alla caduta di Luca Abbà dal traliccio in Val Clarea. Presidio in autostrada senza interruzione del traffico, dove per qualche minuto le barriere del pedaggio sono rimaste alzate e gli automobilisti sono passati senza pagare.
Cosa accomuna queste tre vicende, che per coincidenza hanno visto svolgersi momenti centrali della loro storia processuale a pochi giorni l’uno dall’altro? L’uso del diritto d’eccezione e peggio della normativa fascista per giudicare non solo atti di lotta politica, ma anche percorsi e identità militanti, tradendo che la vecchia idea del “nemico interno” sia ancora parte della cultura politica della classe dirigente italiana.
Nel caso infatti del processo sul 15 ottobre, nonostante la Difesa abbia tentato di far cadere l’accusa di “devastazione e saccheggio” sottolineando come il reato fosse stato scritto e introdotto in un regime dittatoriale, la cui concezione dell’ordine pubblico e del conflitto dovrebbe differire da quella di un regime democratico, il Procuratore generale ha invece sottolineato la coerenza di applicazione per comportamenti di specifici movimenti politici, le cui azioni e obiettivi non rientrerebbero nel repertorio conflittuale legittimato dall’ordinamento repubblicano. Detto semplicemente: le norme autoritarie si possono applicare a settori antagonisti, estrema sinistra, movimenti sociali, a maggior ragione nel caso di scontri di piazza e atti violenti.
Per quanto riguarda il “non-processo” torinese sugli internazionalisti, nel corso dell’anno è emerso sempre più chiaramente come l’utilizzo di una norma di repressione preventiva quale è la misura di “sorveglianza speciale” (non ci sono accuse, non c’è un processo vero e proprio, si valuta la presunta “pericolosità sociale” sulla base di comportamenti non conformi anche quando non costituenti reato) sia legata alla militanza in patria di Eddi, Paolo e Jacopo più che alla loro esperienza rivoluzionaria in Siria del Nord. O meglio: l’addestramento militare nelle milizie di autodifesa, nel caso di Eddi e Paolo, e la partecipazione al movimento civile della rivoluzione, nel caso di Jacopo, aumenterebbero il grado di pericolosità di individui dichiaratamente anticapitalisti e appartenenti in patria a realtà politiche già sotto sorveglianza – e repressione – da parte di magistrature e questure. E’ un processo alle opinioni, non si contestano reati.
Infine, Nicoletta: figura di primo piano di uno dei movimenti popolari più duramente colpiti dalla repressione, il suo arresto, così come quello di Giorgio, Mattia e Luca, dimostra ancora una volta l’ottusità e la rigidezza di una magistratura che non si è mai liberata della sua cultura conservatrice e incapace di comprendere le ragioni e le dinamiche del conflitto sociale. Mai come in questo caso, con la decisione di reputare reato il presunto “concorso morale” (gli accusati non hanno commesso direttamente un reato, ma lo avrebbero sostenuto con la loro presenza fisica nelle vicinanze o a livello di opinioni) il diritto coincide con il suo uso politico, altro che veste tecnica e neutrale.
Queste tre storie ci interrogano tutti: in un paese dove è stato calcolato che i diversi procedimenti giudiziari riguardanti atti a vario titolo politici sono circa 10.000, in una fase di isolamento dei movimenti e dove l’apparato repressivo si è ulteriormente appesantito a causa dei Decreti Sicurezza Minniti, Salvini e Salvini Bis (questi ultimi non a caso ancora intonsi nonostante il cambio di maggioranza), non possiamo che sottolineare la necessità che torni in primo piano la questione della repressione e della solidarietà, che ci si faccia carico di tutti i processi e procedimenti in corso, rilanciando la più grande battaglia per un’amnistia sociale generale e assolutamente non selettiva.
Nicoletta ha già detto che non vuole la grazia, e siamo d’accordo con lei: non si tratta di chiedere perdono a uno Stato che prosegue nella sua dualità interpretativa della punizione secondo criteri di discriminazione politica e che non ha mai eliminato le scorie di continuità che, da prima del fascismo, costituiscono la vera pregiudiziale antidemocratica di questo paese, a cominciare proprio dalla magistratura. Ripartiamo da qui, ripartiamo dalla piazza torinese del prossimo 11 gennaio al fianco del movimento No Tav.