Lo sgombero dell’occupazione di via Esterle (gli ex bagni pubblici liberati dall’abbandono 6 anni fa da parte prevalentemente di lavoratori/lavoratrici migranti) rappresenta un’ulteriore dimostrazione di cosa significhi il diritto alla casa nella città di Milano.
“Capitale economica” del Paese, certo, cresciuta con il mito del “rinascimento” post-industriale riuscito (dove altre città hanno fallito, vedi Torino, specchio negativo per i governanti meneghini) grazie alla transizione verso terziario, servizi, immobiliare di lusso e architettura d’avanguardia Una grande operazione di marketing, facilitata anche da una finanziarizzazione del mattone senza eguali in Italia (agevolata anche dalla condizione di “paradiso fiscale” de facto per i grandi costruttori e investitori del real estate, considerando il record milanese degli oneri di urbanizzazione più bassi d’Italia), che ha più che altro cercato di “nascondere sotto il tappeto il segreto di laboratorio della produzione” – avrebbe detto qualcuno.
Già perchè produzione, lavoro manuale, sottoccupazione stagionale, precariato di massa dequalificato, lavoro di cura, logistica e persino manodopera industriale continuano a essere le colonne portanti di quel modello Milano che ignora di tenere nel suo ventre 200mila circa lavoratori/lavoratrici migranti che rappresentano la base più povera di quel working poor che proprio in via Esterle è stato attaccato ed espulso dalla città (salvo continuare a essere richiesta la propria manovalanza).
Le ridicole proposte che il Comune di Milano aveva avanzato nelle settimane precedenti – nel corso di trattative cui era stato comunque costretto dal collettivo Ci Siamo, che aveva ottenuto in questo un piccolo risultato – fanno il paio con l’inconcludenza rispetto all’accordo sul “canone concordato” che Maran aveva annunciato lo scorso 27 luglio. Se via Esterle infatti dimostra la non-politica della giunta Sala (e in generale di tutte le amministrazioni della Città Metropolitana, trovando diverse analogie con la vertenza dello Spazio 20092 di Cinisello) sulla questione abitativa per i redditi più bassi, la proposta di Maran mostra l’ingenuità (a essere gentili) di chi crede che il problema casa per il ceto medio impoverito si possa risolvere con il vecchio strumento del passato – il mercato, dando ancora una volta “tutto il potere ai proprietari”.
Per i primi infatti le amministrazioni di solito accettano una interlocuzione di facciata, dopo che la protesta monta troppo, coprendosi dietro i servizi sociali (e trattando dunque il problema madre dell’inaccessibilità a una casa come una questione di marginalità e devianza) e offrendo soluzioni ultra temporanee a prezzi comunque inaccessibili (perché delegate alla disponibilità di strutture private, come ostelli o residence, dato che quelle pubbliche d’emergenza sono al collasso e di toccare gli oltre 18 mila appartamenti vuoti manco se ne parla). Dopo l’ovvio fallimento della trattativa, l’istituzione scompare e lascia campo libero alla forza pubblica: una volta buttatə per strada, ci penserà la disperazione a disaggregare il gruppo, allontanandoli dalla città, e il bisogno di lavorare a riassorbire i singoli nel basso mercato metropolitano.
Per i secondi, tra cui possiamo contare anche gli/le studentə delle Tende in Piazza, invece, come ha giustamente notato Abitare in via Padova, si è pensato di risolvere il problema dell’affitto non introducendo strumenti di penalizzazione dello sfitto o imponendo il famoso tetto al prezzo di mercato: al contrario, nella suddivisione del territorio comunale in cinque zone per fascia di valore (con l’indicazione di un tetto massimo e minimo), si impone il rialzo del cosiddetto canone concordato verso il prezzo di mercato. Non a caso l’accordo è stato rigettato da Sicet, Asia e Unione inquilini, tre tra le più importanti organizzazioni sindacali di abitanti presenti in città.
Ora, lo sgombero di fine agosto di via Esterle ci ricorda che gli esclusi – attuali o prossimi – dal modello Milano e chi governa – o meglio amministra – il modello hanno tempi diversi: Sala, Maran e soci possono prendersi tutto il tempo che vogliono, organizzare eventi e partecipare a conferenze o seminari, giocare sui tempi della campagna stampa e contare sulla memoria breve dell’attenzione pubblica; noi no. Le dinamiche del modello e della finanziarizzazione le stiamo denunciando, delle proposte per la piena realizzazione del diritto alla città sono state elaborate da più soggetti, momenti di incontro e dibattito ne abbiamo avuto molti; non abbiamo certo finito di studiare e analizzare, ma quello che dobbiamo fare è riportare al centro la questione del conflitto parallelamente a quella della critica. E questo potrà avvenire solo se le diverse componenti di questa, ancora potenziale, nuova fase della lotta per il diritto alla casa riusciranno davvero a convergere nonostante le differenze di condizione e bisogno abitativo.