Atene 2004 – Milano 2015 | Il grande evento contro il diritto alla città.

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Milano come Atene, grandi eventi al (dis)servizio del paese.

Un freddo pungente, inusuale per Atene, ci accoglie al nostro ingresso nel glorioso villaggio olimpico, simbolo inequivocabile dello stato attuale della penisola ellenica.

Spazi siderali ricolmi di nulla, scheletri d’acciaio di una paradossale bellezza.

Tutto fermo, inutilizzato, coperto da una coltre di polvere e segnato dal tempo.

Atene oggi le chiama “le moderne rovine greche”: tutte quelle strutture che hanno ospitato le varie discipline olimpiche, a futura memoria degli sprechi, della speculazione che ha divorato e abbandonato Atene, della mirabolante promessa di un arricchimento individuale, rapido e facile.

Nel 2004 il paese, governato da Costas Karamanlis (leader del partito egemone, il conservatore Nuova democrazia), con grande entusiasmo organizza le sue olimpiadi, con la speranza è di farle diventare il trampolino di lancio verso l’era della modernità.

È andata in modo molto diverso: è stato l’inizio della fine.

Il costo complessivo delle Olimpiadi sarebbe dovuto ammontare a poco meno di cinque miliardi di euro. Secondo i conti ufficiali presentati (con grande ritardo e poco credibili, come ci hanno tristemente abituati i bilanci del periodo pre-Crisi) alla Grecia dal Comitato organizzatore (privatizzato), la spesa complessiva arrivò fino ad undici miliardi, mentre più di un osservatore indipendente stima che la bolletta olimpica è stata superiore ai 20 miliardi. Un costo insostenibile per le casse elleniche, che allora iniziarono la torsione verso l’indebitamento, esploso drammaticamente dopo l’inizio della recessione globale. Nel 2002 il rapporto deficit/Pil era ancora a livelli sostenibili, 3,7%, ma nell’anno olimpico schizzò al 7,5%. L’impennata si fece sentire anche sull’indebitamento pubblico, che passò da 182 a 201 miliardi di euro. Buchi di bilancio che diventarono poi voragini quando il crack di Lehman Brothers interruppe l’imponente flusso di capitali che aveva dato vivacità e crescita all’economia greca, nonostante la sua scarsa propensione all’export.

Ma le problematicità non si esaurirono solo al bilancio economico del paese: il grande evento ha portato un’urbanizzazione forzata di parte della metropoli, negando la possibilità alla cittadinanza di avvalersi del diritto alla città. Le famose “riforme urbane” che anche a Milano si sono fatte sentire e vedere negli ultimi quindici anni e che con Expo dovrebbero trovare il loro punto di arrivo.

Sebbene Atene pullula d’esperienze autogestite e di riappropriazione del territorio (spazi, orti e parchi condivisi), resta impassibile di fronte a quei mostri di speculazione e inutilità che hanno segnato irrimediabilmente il panorama urbano, lasciando anche l’impossibilità di riqualifica di quei luoghi per mancanza di investimenti economici.

A questo aggiungiamo il fatto che le politiche cittadine non permettono un confronto con la popolazione per l’eventuale ridestinazione d’uso di tali infrastrutture, annullando quindi la possibilità di dare un senso a ciò che è più semplice (ed economico) abbandonare al disuso, sperando che anche quest’orrore (come tanti altri) cada nel dimenticatoio.

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Atene 2004, Expo 2015.

Tutto questo lega indissolubilmente la nostra proiezione a Expo 2015.

Atene e la Grecia hanno “imparato” una lezione molto importante: le grandi opere e i grandi eventi sono il racconto di un sogno che si trasforma rapidamente in incubo, quando tutti i risvolti degradanti si palesano e ricadono sulla comunità pubblica.

Expo come aumento del debito, come uso smodato e inutile di cemento, come miraggio di occupazione che sa molto di precarietà.

Expo come annullamento del sopracitato diritto alla città, che dovrebbe includere i cittadini nelle scelte che trasformeranno la metropoli.

Certo non tutti restano a guardare silenziosi lo stravolgimento del proprio territorio. Qualcuno decide di riappropriarsi delle terre, qualcun’altro di decidere collettivamente cos’è utile e cosa no, qualcuno ancora crede che, seppur cosciente dell’utopia di poter fermare Expo, si possano bloccare alcuni dei suoi tentacoli, che spesso prendono le sembianze di inutili corsi d’acqua.

Chiudere gli occhi in quel freddo pungente, in quelle distese d’acciaio e seggiolini vuoti, e non volerli riaprire nel 2016 a Milano.

Oppure avere il coraggio di tenerli ben aperti, anche di fronte alla catastrofe imminente, ed essere pronti ad affrontarne le conseguenze: denunciate negli anni precedenti al megaevento e che richiederanno una forza ancora più forte quando il grande inganno di Expo sarà finito, lasciando solo più ferite in un territorio martoriato dalla finanza e dal cemento come quello milanese.

Macho zam&Elio offtopic.

La terza dimensione di Expo: la materialità del cemento.

Un anno vissuto con l’attitudine noexpo non si divide in giorni e mesi, ma in piccoli o grandi momenti.
Per questo ci sembra opportuno riprendere parola a fronte degli eventi così significativi come quelli delle ultime settimane: i primi cantieri dentro il perimetro della città di Milano, la risposta decisa e contraria dei quartieri cantierizzati, l’imbarazzo e i silenzi della Giunta Pisapia, lo stop dei lavori e delle ruspe, lo stato di solitudine della popolazione nei confronti degli interessi privati, la partecipazione attiva come strumento per ottenere risultati.
Il comunicato che segue cerca di unire i puntini del nostro calendario alla luce di questi eventi.
Buona lettura, ci vediamo tra Trenno e Baggio ai primi di Gennaio.

A cinquecento giorni dall’apertura dei cancelli, EXPO 2015 ha aperto cantieri anche dentro la città di Milano. Dopo anni di retoriche pro-evento, in cui la propaganda di Expo come volano per il rilancio dell’economia lombarda e nazionale è entrata in modo capillare nei discorsi pubblici delle principali cariche dello Stato e delle Istituzioni, l’apertura dei primi cantieri cittadini, tra piazza Castello, la Darsena e i parchi del nord-ovest milanese (parco di Trenno, delle Cave, Pertini), deve essere annotata come un passaggio decisivo: stiamo assistendo alla trasformazione delle infinite narrazioni expottimiste in cemento. Ed è proprio la materialità irreversibile del cemento che -trasformando alcuni parchi cittadini in piccoli giardini di quartiere grazie al progetto della Via d’Acqua- ci permette di toccare con mano le nocività insite nel progetto, a scapito del tema ufficiale della manifestazione (“Nutrire il pianeta – Energia per la vita”).

Sono stati anni in cui la retorica della grande promessa di Expo2015 e il parallelo sgretolarsi dell’immagine trionfale del grande evento (fenomeno dovuto a incompetenze, stupidità e alleanze con settori della criminalità organizzata che hanno causato spreco di denaro pubblico e ritardi anche imposti dalla magistratura) non sono riusciti a suscitare l’interesse della popolazione. Il commissario con incarichi speciali Sala, il capo del governo Letta, il sindaco Pisapia, Confindustria, le sigle dei commercianti e tutti i loro partner non aspettavano altro. Da qualche settimana invece sta accadendo qualcosa, le persone si stanno interessando davvero e partecipano, ma diversamente da come molti si sarebbero aspettati. Ve li citiamo caso per caso, suggerendo a chi legge di mantenere un’ampia prospettiva di indagine e di analisi. Ieri la Martesana e l’est milanese per fermare la TEEM, oggi il parco di Trenno per fermare la Via d’acqua: se ci fermassimo all’elemento localistico perderemmo di vista il quadro complessivo e, con questo, gli strumenti più affilati con cui abbiamo costruito in questi anni l’opposizione a EXPO 2015 (dalla scomposizione del grande evento nelle tre direttrici “debito-cemento-precarietà”, alla creazione e scrittura di “Expopolis” come gioco e poi come libro, con tutto quello che ci sta in mezzo e che verrà).

Partiamo allora dal caso della mobilitazione che negli ultimi due mesi ha interessato la difesa dei grandi parchi della periferia nord-ovest (Trenno, Cave e Pertini), contro il progetto della Via d’Acqua: il primo vero fronte caldo che si è aperto in città dichiaratamente contro Expo, che ha visto la partecipazione dei cittadini dei quartieri e il contributo generoso degli attivisti di altri comitati e realtà, con una presenza costante dentro i cantieri per impedire i lavori e presidi sotto Comune e sede di Expo Spa. Proteste che hanno ottenuto un primo risultato importante: il blocco dei lavori e la disponibilità della Giunta a ridefinire il progetto. Per la prima volta la macchina di Expo si è bloccata e viene messa in discussione dalla mobilitazione popolare. E in discussione sono anche i poteri di Sala, commissario speciale e A.D. di Expo Spa, che decide se vanno o non vanno fatte le bonifiche. Un risultato che lascia sullo sfondo almeno un paio di considerazioni che non possono essere trascurate. La prima riguarda i poteri speciali conferiti a Sala: l’eletto da nessuno, ma scelto da alcuni particolarmente interessati, decide per tutti e, con un solo colpo di penna, può permettere di effettuare lavori su terreni dichiarati pericolosi (e che andrebbero bonificati prima di ogni eventuale lavoro) a scapito della popolazione. La seconda è una diretta conseguenza di questa scelta e verte sul diritto alla salute quando la politica (e i politici) si ritira e saltano i meccanismi di rappresentanza e mediazione: nel silenzio della Giunta Pisapia (colpevole di non aver stralciato in toto il progetto EXPO quando poteva farlo) e nell’impossibilità imbarazzata dei suoi organi di controllo di fermare le ruspe su quei terreni, il diritto alla salute diventa un lusso per alcuni e una scommessa per tutti gli altri, dentro una partita che si gioca tra singolo cittadino e impresa privata che fa i lavori dopo l’avvallo del commissario speciale. E’ il caso degli operai stranieri che, a inizio novembre, sono saliti su una delle gru del cantiere Merlata dove lavoravano, chiedendo i quattro mesi di salario non ancora corrisposti. Nel silenzio dei media e della Giunta arancione si è consumata la prima protesta contro le condizioni di lavoro imposte nei cantieri dell’Expo, in particolare ai lavoratori non sindacalizzati. E’ il caso, però, anche degli operai edili appartenenti alle sigle confederali, che venerdì 13 dicembre hanno scioperato e manifestato proprio ai cancelli dei cantieri nord dell’Expo. Il motivo? Protestare contro la deroga al Contratto nazionale per chi lavora alla costruzione del sito del megaevento: decisione che comporta salari più bassi anche per i sindacalizzati e l’applicazione di un modello contrattuale che azzera le tutele dei Cnl, generalizzando così la precarietà già prevista dall’accordo del 26 luglio sui contratti di lavoro dentro il megaevento (e oltre). E’ il caso anche dei movimenti per la casa e dei Comitati per il Diritto all’Abitare, che devono affrontare emergenze abitative in pieno inverno avendo a che fare con un’Aler corrotta e incapace, che si è “scoperta” con un buco di oltre 400.000 euro dovuto a cattivi investimenti e mala amministrazione. Così come è il caso del movimento studentesco milanese e degli insegnanti delle scuole comunali, che negli ultimi mesi hanno riconosciuto nell’enorme buco di bilancio causato da Expo una delle principali cause della chiusura di alcune scuole (come nel quartiere Gallaratese, proprio quello interessato dalla Via d’Acqua), del progressivo abbandono da parte delle istituzioni competenti degli istituti ancora aperti.

La materialità del processo Expo, questa dimensione fatta di cemento e ruspe a scapito di tessuti sociali vivi, pur essendo all’inizio, è quindi già entrata prepotentemente nella vita pubblica della città sollevando resistenza. I prossimi mesi si rivelano quindi decisivi. Movimenti sociali, comitati di quartiere, cittadini di diverse fasce di reddito, lavoratori precari o in nero e operai: è evidente che tutti questi soggetti sono giunti sotto il Comune di Milano, sotto la sede di Expo di via Rovello e hanno fronteggiato i cantieri aperti (i tre luoghi simbolo delle larghe Intese che uniscono politica, finanza, grossa e piccola imprenditoria) arrivando da percorsi diversi. Però, esattamente come esiste una materialità comune che caratterizza il mega evento, allora è possibile individuarne una condivisa anche tra i molti soggetti che a questo si oppongono. “A lotte comuni un vocabolario comune”, abbiamo detto più di una volta: la sfida che ci aspetta nel cruciale 2014 è cominciare a raccogliere quanto seminato nel lavoro degli anni scorsi e dargli un senso in vista del primo maggio 2015.

Il primo passo è bloccare la Via d’acqua. Dopo aver parlato di NoExpo è ora di agire da NoExpo.

Merry struggle and Happy #nocanal

Vi ricordate le puntante precedenti? Qui, Qui e Qui!
Bene, da febbraio 2012 a oggi di acqua sotto ai ponti non ne è passata. E non ne passerà, diciamo noi.
Nel frattempo i furbetti di Expo 2015 hanno provato ad allungare la loro zampa sui parchi milanesi scommettendo sulla distrazione generale: expoentusiasmo lo chiamano loro. Gli è andata male.
La cantierizzazione nei parchi di Trenno, Cave, Bosco in Città e Pertini ha reso evidente agli occhi di tutti quello che è veramente Expo: una truffa fatta di cemento, spreco di soldi pubblici, poteri speciali. E la Via d’Acqua sintetizza bene tutte queste nocività.
Ora in quei parchi sono tornate tranquillità e vivacità, sta decidendo chi li vive. Le ruspe sono in silenzio e gli occhi dei cittadini bene aperti. Guai a fidarsi troppo di chi con spregiudicatezza e sprezzo della salute pubblica ha aperto cantieri su terreni inquinati, da bonificare e declassando i veleni.
E allora che il silenzio delle ruspe sia il silenzio del modello fallimentare di Expo 2015.
Auguri herr kommissar!  

Greetings from Greece

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Cinque giorni in Grecia, in questi convulsi anni di crisi e sconvolgimenti sociali, sono un’esperienza complessa e intensa, difficile da riassumere in poche parole. Molte le suggestioni, le immagini, i confronti che il paesaggio, devastato e nonostante tutto combattivo, di una città viva come Atene ci suggerisce. Per questo proviamo a mettere ordine nei nostri pensieri e ricostruire l’immagine comunque appena sfiorata del paese che più di tutti, in Europa, sta fungendo da triste “avanguardia” dei possibili panorami della Grande crisi.

p.s. Ringraziamo in particolare il sito di controinformazione greco-italiano atenecalling.org e gli altri siti di movimento citati nelle note per il costante lavoro di aggiornamento dall’articolata e convulsa situazione greca.

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Rebetiko e anarchia

Arriviamo nello storico quartiere popolare di Exarchia, vicino al centro di Atene: sarà la differenza di colore dei muri, sarà per il movimento di giovani che attraversano le strade, sarà per l’assenza di banche o per il presidio permanente dell’antisommossa ai suoi confini, ma fin dai primi passi dentro si respira un’aria diversa dal resto della città. Exarchia è un quartiere complesso, con una storia antica e radici che influenzano ancora oggi le sue dinamiche interne: roccaforte rivoltosa fin dai tempi del Colonnelli, quartier generale del pensiero radicale ateniese (e greco), in particolare anarchico, costellata da centri sociali e club politici, la politica è parte integrante della vita di Exarchia; in passato è stata anche la culla della malavita gentile, molto simile alla ligera milanese, caratterizzata da un’illegalità di sopravvivenza e da un rifiuto deciso dell’autorità (da queste parti mai gentile) di polizia, Stato e banche. La caratteristica organizzazione in bande e gruppi, con l’evolversi della complessa storia greca, si è col tempo politicizzata in senso antiautoritario e libertario. Durante la dittatura dei Colonnelli, è da Exarchia e dal vicino Politecnico che è partita una delle poche rivolte diffuse in pieno regime, nel ’73

La storia del quartiere e del suo complesso tessuto sociale è ancora oggi raccontata nella canzone popolare tipica della Grecia: il rebetiko, un genere molto simile alla musica balcanica, che racconta storie d’amore estremamente passionali, accoltellamenti per gioco, scontri con l’autorità, criminalità di strada violenta contro il potere e gentile con poveri ed emarginati, anzi i cui protagonisti vengono dai bassifondi. Ancora oggi nel quartiere ci sono numerosi locali dove è possibile ascoltare le ballate popolari del rebetiko, cantate ad alta voce anche dai più giovani, tra un bicchiere di grappa ed un liquore greco. E lo spirito di questa musica underground d’altri tempi si respira anche nell’estrema ospitalità con cui gruppi organizzati e abitanti trattano quelli considerati loro simili: un’ospitalità da un lato tipicamente mediterranea, dall’altro fortemente intrisa di affinità politica.

Questa storia sempre ai margini della società e mai realmente pacificata con le istituzioni si riscontra nella consapevolezza degli abitanti e dei frequentatori del quartiere, in particolare gli attivisti politici che in Exarchia trovano sempre un rifugio ed un punto d’incontro: la sinistra greca, quella rivoluzionaria soprattutto, fin dai tempi della guerra civile del ’46-’49 ha alternato periodi di clandestinità a periodi di legalità, ma subendo una forte discriminazione e rimanendo comunque sotto stretta sorveglianza, da parte di autorità formatesi e strutturate con un’impronta decisamente anticomunista. Non solo ad Exarchia, ma in generale in tutto il paese, l’ala antagonista e radicale ha dovuto necessariamente darsi un’organizzazione e una disciplina senza le quali non sarebbe stata in grado di radicarsi e, in primo luogo, di sopravvivere.

Quello che colpisce è quindi il carattere non conflittuale degli attivisti di questa bank free zone: gentilezza e ospitalità assieme ad una dura e consapevole determinazione. Fino al 2008 si pensava che questo complesso e variegato movimento anarchico e antiautoritario fosse confinato alla sola Exarchia, ma l’assassinio del giovanissimo Alexis, prima, e l’esplodere della crisi del debito, dopo, hanno invece dimostrato una sua più larga presenza soprattutto tra gli strati giovanili e la sua capacità di costruire un’asse con la più ampia protesta popolare scoppiata dal 2010.

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Il contratto sociale si è rotto

E’ esattamente questo il sentimento forse più diffuso nella Grecia della Grande crisi, come ci ha raccontato un compagno di Exarchia: la sensazione che la già debole coesione sociale costruita faticosamente dopo la fine della dittatura abbia perso i suoi fondamenti. Fondato fino agli anni Ottanta sul mai realizzato programma socialista di riforme radicali e, dai Novanta ai primi Duemila, sulla promessa neoliberista del facile arricchimento e del benessere individuale di marca americana, il contratto sociale greco si è schiantato sulla crisi del debito e sui memoranda imposti dalla Troika.

In particolare, l’arricchimento facile, il clientelismo di Stato, la corruzione, la speculazione sul territorio sono stati il grande inganno benedetto anche dai partner europei (tedeschi e francesi in primis, ma anche inglesi). Il simbolo estremo di questa arroganza e di questa irresponsabilità politica è il villaggio olimpico, costruito per le Olimpiadi del 2004 nella periferia nord di Atene, ora quasi del tutto abbandonato e inutilizzato.

L’etica pubblica fortemente individualista e il consenso popolare verso un sistema politico dominato da organizzazioni politiche a sindacali (socialisti e conservatori su tutti) molto simili ai partiti dei notai, del deputato di famiglia o di caseggiato, precedenti ai partiti di massa di fine Ottocento, avevano contribuito comunque a sviluppare anche una controcorrente sotterranea: accanto ai favori e alle reti clientelari, si è formata una massa di giovani e di appartenenti ai gruppi sociali esclusi dal progetto di modernizzazione del paese (immigrati e precari). Naturalmente, collocandosi a sinistra, questi gruppi oltre a subire la discriminazione e l’esclusione dei burocrati, hanno vissuto direttamente i soprusi e le violenze di una polizia ancora fortemente politicizzata a destra, che risente dell’originale vocazione anticomunista e repressiva.

E’ esattamente questo che è successo la sera del 6 dicembre 2008 quando, in seguito all’uccisione di Alexis dentro Exarchia (quartiere che, come abbiamo visto, è sempre stato offlimits per la polizia), per oltre dieci giorni la combattività e il rifiuto di questi giovani esclusi si è manifestata violentemente e con un’estensione che ha colto alla sprovvista istituzioni, polizia ed opinione pubblica. Ed è esattamente questo che è successo anche nella rivolta di massa che dal maggio 2010 ha caratterizzato la vita pubblica greca: le ragioni dell’anarchismo giovanile e dei vecchi gruppi antiautoritari, radicatesi tra chi non faceva parte delle formazioni politiche tradizionali (e delle loro ideologie) che si sono spartite la torta, sono riuscite a trovare comprensione anche in quella parte di classe media bruscamente privata di garanzie e diritti.
Ora a fine 2013 si può dire che, al di là dei trucchi finanziari e delle promesse di sviluppo inarrestabile, al di là del clientelismo consensuale degli ultimi vent’anni, la rottura del contratto sociale significa prima di tutto che i governanti hanno accettato di smantellare completamente le fondamenta di qualunque sistema di welfare e di protezione del cittadino dalla tragedia della povertà: lo si vede nella speculazione che prima ha divorato e ora abbandonato Atene, lasciando edifici vuoti o in avanzato degrado; lo si vede dall’impressionante numero di vetrine di negozi ed esercizi commerciali svuotati in seguito a fallimenti; lo si vede dalle siringhe per terra, dal crescente numero di eroinomani per le strade, dal prepotente aumento delle bande criminali; lo si vede dai senzatetto e dai disoccupati nelle strade; lo si vede dagli ospedali, dalle scuole e dalle università chiuse per mancanza di fondi o in segno di protesta  contro i tagli letali imposti dalle Larghe intese e ordinati dalla Troika.

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Una volta con i carri armati, ora con le banche

La fine del contratto sociale va di pari passo con la disgregazione della società greca e il progressivo isolamento delle istituzioni, che procedono ignorando opinione pubblica ed eventi esterni ai palazzi.

Quando la Grecia è entrata in crisi e tutto è sembrato rapidamente collassare, la risposta del popolo greco è stata coraggiosa: mobilitazioni di massa, spesso confuse, spontanee, con una composizione eterogenea, ma parole d’ordine condivise e chiare. Le piazze greche, tra scontri con la polizia, assalti al Parlamento, presidi permanenti, scioperi e occupazioni, parlavano di democrazia diretta, opposizione fino alle estreme conseguenze delle imposizioni straniere, solidarietà sociale. E’ stato un grido dentro cui si sono inserite le speranze rivoluzionarie del movimento anarchico, il riformismo radicale della sinistra di Syriza e per certi versi anche del Partito comunista, le proteste dei lavoratori pubblici e privati, la classe media in rapida decomposizione e i pensionati con l’agghiacciante prospettiva di vedere drasticamente ridotta la propria pensione. E la risposta non si è manifestata solo nella radicalità di piazza, ma anche nella riorganizzazione d’emergenza che la popolazione ha dovuto affrontare nel momento in cui lo Stato si è ritirato: le Cliniche solidali di Atene, dove medici e infermieri curano gratuitamente cittadini privi di assistenza sanitaria oppure a causa della chiusura degli ospedali pubblici le fabbriche autogestite di Salonicco, la cui direzione è stata presa direttamente dai lavoratori e la cui produzione è stabilita dall’Assemblea pubblica cittadina, le scuole aperte nei quartieri periferici, improvvisate e gestite direttamente dagli insegnanti, per far fronte alla drammatica dispersione scolastica dei giovani greci, alimentata anche dal quasi fallimento della Pubblica istruzione; la sede volante della Ert (la rete televisiva pubblica, la Rai greca), che dopo la chiusura e la privatizzazione ha prima occupato la propria sede storica e, dopo lo sgombero da parte della polizia, ha cominciato a trasmettere dove viene offerta ospitalità (non ultimo, il Politecnico) e ancora, la cacciata degli spacciatori di eroina da Exarchia e la pulizia del quartiere dalle siringhe utilizzate.

Questa riorganizzazione spontanea di parte della popolazione greca è parte di quello spirito di rivolta che ha avuto nelle proteste di piazza la sua immagine più spettacolare e che continua ad essere presente. Tuttavia, negli ultimi tre anni, da un lato Stato e governo hanno avuto il tempo di organizzarsi, dall’altro stanno progressivamente subentrando alla rabbia cinismo, individualismo e depressione. Inoltre, la rapida crescita non solo elettorale dei neonazisti di Alba Dorata ha mostrato che la presunta egemonia che la sinistra sembrava aver conquistato sulla protesta sociale era molto meno consolidata di quanto si credesse. Parlando con i compagni e gli attivisti greci, così come con i giornalisti della Ert (non proprio degli estremisti), la sensazione è che la tensione sociale stia crescendo e si nutra di diversi elementi, primo fra tutti il formarsi di un’estesa area grigia formata principalmente dalla classe media disintegratasi, indifferente alla protesta politica, che si rifugia in pratiche di sopravvivenza molto individuali; il problema è che, come sempre le zone grigie, si sta rapidamente trasformando nel terreno più fertile per il populismo neonazista di Alba Dorata. Il bisogno di ordine e stabilità, la paura del futuro, sono anche la principale giustificazione nei confronti della violenza poliziesca e nutrono l’indifferenza per la gravissima situazione repressiva che ormai sempre più coinvolge centinaia di attivisti.

“Once with tanks, now with banks” recita un murales vicino al centro di Atene. Il richiamo al golpe del 1967 e alla lunga notte della dittatura militare è molto diffuso e questo spiega perché, in Grecia, l’antifascismo è un sentimento ancora ben presente e vivo nelle contestazioni e nelle proteste contro i memoranda europei: l’austerità radicale e violenta sta causando la disgregazione sociale, che a sua volta alimenta il fascismo protetto dallo Stato e in cui militano molti membri di forze dell’ordine ed esercito; la disgregazione sociale causa anche un aumento della tensione, cui i governanti rispondono con un crescente autoritarismo. Non è un caso che, mentre banchieri e politici greci prendono ordini da tedeschi e inglesi, i dirigenti della Sicurezza nazionale sono andati a scuola dai loro colleghi nord europei, riorganizzando completamente la polizia e l’antiterrorismo. Durante le manifestazioni e in generali nei presidi di polizia, non vengono mai usati blindati o mezzi corazzati, in quanto simbolo del periodo della giunta militare, quindi la presenza fisica degli agenti è sempre stata preponderante in piazza. Il segno più evidente di questa riorganizzazione è l’applicazione del metodo nordeuropeo di affiancamento e “scorta” del corteo da parte della polizia e l’introduzione di un corpo speciale motorizzato, chiamato Squadra Delta, i cui uomini sono molto vicini all’estrema destra.

La tensione e l’insofferenza per il legame polizia-Alba Dorata è riesplosa violentemente in occasione del recente omicidio del rapper antifascista Pavlos Fissas.

Come insegna Pinochet, il neoliberismo non è solo una ricetta economica, ma nella sua forma più brutale richiede anche un efficiente apparato repressivo e di controllo. Se volessimo segnare su una cartina di Atene i luoghi del potere decisionale, più che il Parlamento, dovremmo mettere una bandierina sul lussuoso albergo posizionato esattamente di fronte: l’Hotel Grand Bretagne, dove i commissari della Troika e del Fmi alloggiano quando vengono in visita nella capitale greca.

In questa situazione molto complessa, lo spirito di solidarietà del 2010-2012 non è scomparso, ma sembra aver quasi passato il suo momento di forza. Dalla rivolta si sta passando alla resistenza. Con tutte le incognite che ciò comporta.

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Alexis 5 anni dopo. Ancora una volta: Pane, Istruzione, Libertà

Il 6 dicembre 2013 è stato il quinto anniversario dell’assassinio di Alexis e delle sommosse che ne sono seguite. Alexis è un simbolo: non soltanto della repressione poliziesca, ma più in generale di uno Stato e di una società che ha, prima della crisi, privato una grossa parte di giovani e giovanissimi di qualunque alternativa al clientelismo e alla servitù verso “deputati di famiglia” e “burocrati amici”; mentre dopo, quando il debito è esploso, ha rinunciato una volta di più all’obbligo della solidarietà sociale e al dovere dell’uguaglianza. Alexis è un simbolo per i gruppi rivoluzionari, per la sinistra radicale, ma con l’aggravarsi della situazione economica e sociale rappresenta sempre più un ricordo importante anche per ampi settori dell’opinione pubblica di sinistra

Per una rapida rassegna con immagini e filmati delle mobilitazioni ad Atene e Salonicco, segnaliamo: http://www.squer.it/of/alexis-grigoropolous-proteste-anniversario-grecia/.

Al corteo mattutino, aperto dagli studenti, sono presenti anche i sindacati, i partiti e l’associazionismo greco. Ma sono gli studenti e i giovani i veri protagonisti della piazza: l’impressione più forte e toccante è vedere ragazzini anche giovanissimi di 13-14 anni, con la faccia già indurita e in parte consapevoli di non aver più concesso praticamente nessun futuro. Alexis era uno di loro dopotutto. E sono sempre gli studenti che, dopo essere passati da un Parlamento blindato come mai negli ultimi anni, guidano gli scontri che scoppiano davanti l’università statale, punto di partenza e di arrivo del corteo. C’è un’immagine molto bella che rappresenta lo spirito della manifestazione mattutina: gli studenti, ritirandosi dopo l’attacco della polizia, tentano di rifugiarsi sulle scalinate all’ingresso dell’ateneo, venendo così circondati; contemporaneamente, però, il resto del corteo, dopo essersi inizialmente sbandato per i lacrimogeni e le cariche, decide di mettersi a ridosso dei poliziotti per evitare l’arresto degli studenti. In Grecia, fino a poco tempo fa, la Costituzione prevedeva il diritto d’asilo dentro le università (in memoria dei caduti nella rivolta del Politecnico); questo diritto è stato eliminato di recente e quindi solo grazie alla compattezza dei manifestanti si sono potuti evitare almeno trecento fermi.

La sera invece, con l’aria ancora pesante per i lacrimogeni lanciati nelle ore precedenti, un numero maggiore di persone (oltre 10 mila) si ritrova sempre di fronte l’università per il corteo nazionale che si svolge in un clima teso, ma senza incidenti, anche davanti al Parlamento. E’ nel secondo momento, quando ci si sposta dentro Exarchia per posare un fiore e accendere una candela, in un commovente silenzio, sotto la targa di Alexis che comincia la lunga notte di Exarchia: ogni strada una barricata, ogni esercizio commerciale o albergo un punto di rifugio, ogni tetto un urlo di avvertimento e di supporto per chi si trova in strada ad impedire alla polizia di entrare nel quartiere e attaccare i manifestanti. E’ la solidarietà della bank and police free zone: gli antisommossa e i Delta riescono a più riprese ad entrare e quando lo fanno, le serrande si abbassano, le porte si chiudono e chi si trova in strada si compatta dietro l’ennesima barricata. Poi, non appena la polizia si sposta verso un’altra zona, le vie si ripopolano di persone che escono dai rifugi e i gyros o i bar riprendono la loro attività. L’aria è densa di lacrimogeni, il cui veleno entra dappertutto e rende l’aria irrespirabile, ma nessuno sembra farci troppo caso. Fino a quando non parte un nuovo attacco, non c’è un nuovo urlo che avvisa dell’arrivo della polizia e ci si nasconde di nuovo. E la notte prosegue così a fasi alterne, fino a quando in pochi non restano nelle strade e la polizia (che continua a presidiare le strade fino all’alba) non si ritira.

Il quinto anniversario di Alexis è stato di poco preceduto dal quarantesimo della rivolta del Politecnico del 1973;  il legame tra le due date, pur rappresentando eventi accaduti in contesti differenti, e soprattutto il legame dei due anniversari con l’attuale situazione della Grecia dicono molto di quali siano le ragioni che muovono militanti, attivisti e parte dei cittadini greci. Ancora una volta, potremmo sintetizzare il loro programma politico nelle parole d’ordine lanciate dai ribelli del ’73: pane, istruzione, libertà. E, in un certo senso, queste rappresentano anche “il grido e la richiesta” (per parafrasare Lefebrve quando parla del Diritto alla Città) delle generazioni che si stanno formando e stanno crescendo nei duri anni della Grande crisi in tutta Europa. Come detto all’inizio, la Grecia sta purtroppo rappresentando un’avanguardia, un laboratorio, un possibile esito di quella modernizzazione autoritaria che non costruisce nulla, ma polverizza le società e il loro futuro.

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Chiudiamo con una citazione tratta dall’articolo Dall’occhio destro del primo ministro Samaras all’occhio destro dell’anarchico Gavril, tradotto dal greco su atenecalling.org, che secondo noi esprime meglio di tante analisi ed elaborazioni la partita che si sta giocando in Grecia (e non solo):

Tenete nei vostri occhi bene aperti l’immagine della vostra reale democrazia e della vostra reale sensibilità, quella di un occhio che rotola sull’asfalto per colpa dei battaglioni d’assalto dell’oligarchia, che con la sua assurdità e arroganza fa da anticamera al nazismo, a un nuovo 1967 e a una nuova epoca della Bestia anticomunista, oscurantista e post guerra civile, che cerca “teorie degli opposti estremismi” per “ripulirsi” sugli schermi come “garante della democrazia, della stabilità e della normalità”.

Che ha come simbolo e segno di riconoscimento le flash bangs e i lacrimogeni sparati ad altezza uomo, e che spoglia la società di diritti, lavoro, salute pubblica, istruzione, possibilità, sogni e cultura.

Quanto i nostri occhi potranno ancora sopportare la legalizzazione e l’istituzionalizzazione della violenza politica da parte di una formazione governativa pseudopatriottica ormai in declino (sprofondata ai più bassi livelli qualitativi e morali della classe politica parlamentare borghese della Grecia del Dopogiunta) davanti alla parata del terrorismo e della violenza dello “Stato di diritto”?

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