Atene 2004 – Milano 2015 | Il grande evento contro il diritto alla città.

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Milano come Atene, grandi eventi al (dis)servizio del paese.

Un freddo pungente, inusuale per Atene, ci accoglie al nostro ingresso nel glorioso villaggio olimpico, simbolo inequivocabile dello stato attuale della penisola ellenica.

Spazi siderali ricolmi di nulla, scheletri d’acciaio di una paradossale bellezza.

Tutto fermo, inutilizzato, coperto da una coltre di polvere e segnato dal tempo.

Atene oggi le chiama “le moderne rovine greche”: tutte quelle strutture che hanno ospitato le varie discipline olimpiche, a futura memoria degli sprechi, della speculazione che ha divorato e abbandonato Atene, della mirabolante promessa di un arricchimento individuale, rapido e facile.

Nel 2004 il paese, governato da Costas Karamanlis (leader del partito egemone, il conservatore Nuova democrazia), con grande entusiasmo organizza le sue olimpiadi, con la speranza è di farle diventare il trampolino di lancio verso l’era della modernità.

È andata in modo molto diverso: è stato l’inizio della fine.

Il costo complessivo delle Olimpiadi sarebbe dovuto ammontare a poco meno di cinque miliardi di euro. Secondo i conti ufficiali presentati (con grande ritardo e poco credibili, come ci hanno tristemente abituati i bilanci del periodo pre-Crisi) alla Grecia dal Comitato organizzatore (privatizzato), la spesa complessiva arrivò fino ad undici miliardi, mentre più di un osservatore indipendente stima che la bolletta olimpica è stata superiore ai 20 miliardi. Un costo insostenibile per le casse elleniche, che allora iniziarono la torsione verso l’indebitamento, esploso drammaticamente dopo l’inizio della recessione globale. Nel 2002 il rapporto deficit/Pil era ancora a livelli sostenibili, 3,7%, ma nell’anno olimpico schizzò al 7,5%. L’impennata si fece sentire anche sull’indebitamento pubblico, che passò da 182 a 201 miliardi di euro. Buchi di bilancio che diventarono poi voragini quando il crack di Lehman Brothers interruppe l’imponente flusso di capitali che aveva dato vivacità e crescita all’economia greca, nonostante la sua scarsa propensione all’export.

Ma le problematicità non si esaurirono solo al bilancio economico del paese: il grande evento ha portato un’urbanizzazione forzata di parte della metropoli, negando la possibilità alla cittadinanza di avvalersi del diritto alla città. Le famose “riforme urbane” che anche a Milano si sono fatte sentire e vedere negli ultimi quindici anni e che con Expo dovrebbero trovare il loro punto di arrivo.

Sebbene Atene pullula d’esperienze autogestite e di riappropriazione del territorio (spazi, orti e parchi condivisi), resta impassibile di fronte a quei mostri di speculazione e inutilità che hanno segnato irrimediabilmente il panorama urbano, lasciando anche l’impossibilità di riqualifica di quei luoghi per mancanza di investimenti economici.

A questo aggiungiamo il fatto che le politiche cittadine non permettono un confronto con la popolazione per l’eventuale ridestinazione d’uso di tali infrastrutture, annullando quindi la possibilità di dare un senso a ciò che è più semplice (ed economico) abbandonare al disuso, sperando che anche quest’orrore (come tanti altri) cada nel dimenticatoio.

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Atene 2004, Expo 2015.

Tutto questo lega indissolubilmente la nostra proiezione a Expo 2015.

Atene e la Grecia hanno “imparato” una lezione molto importante: le grandi opere e i grandi eventi sono il racconto di un sogno che si trasforma rapidamente in incubo, quando tutti i risvolti degradanti si palesano e ricadono sulla comunità pubblica.

Expo come aumento del debito, come uso smodato e inutile di cemento, come miraggio di occupazione che sa molto di precarietà.

Expo come annullamento del sopracitato diritto alla città, che dovrebbe includere i cittadini nelle scelte che trasformeranno la metropoli.

Certo non tutti restano a guardare silenziosi lo stravolgimento del proprio territorio. Qualcuno decide di riappropriarsi delle terre, qualcun’altro di decidere collettivamente cos’è utile e cosa no, qualcuno ancora crede che, seppur cosciente dell’utopia di poter fermare Expo, si possano bloccare alcuni dei suoi tentacoli, che spesso prendono le sembianze di inutili corsi d’acqua.

Chiudere gli occhi in quel freddo pungente, in quelle distese d’acciaio e seggiolini vuoti, e non volerli riaprire nel 2016 a Milano.

Oppure avere il coraggio di tenerli ben aperti, anche di fronte alla catastrofe imminente, ed essere pronti ad affrontarne le conseguenze: denunciate negli anni precedenti al megaevento e che richiederanno una forza ancora più forte quando il grande inganno di Expo sarà finito, lasciando solo più ferite in un territorio martoriato dalla finanza e dal cemento come quello milanese.

Macho zam&Elio offtopic.

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