Le Olimpiadi passeranno dal Sudamerica all’estremo Oriente, sorvolando il vecchio continente. Deludendo il tennista Nadal che probabilmente puntava ad essere l’uomo simbolo dell’ipotetica Olimpiade madrilena, oltre che il calciatore Messi che è riuscito ad essere allo stesso tempo testimonial delle candidature di Instanbul e Madrid (le due città uscite sconfitte dalla contesa).
La decisione del CIO, il comitato olimpico internazionale, avvenuta lo scorso fine settimana a Buenos Aires, non è sorprendente e riconferma come la politica dei grandi eventi sia funzionale all’innesco di certi dispositivi socio economici. Per questo motivo è interessante rimarcare alcune questioni a precedere la polemica che genererà probabilmente la boutade di Letta e la caduta provincialista successiva prodotta dal sempreverde Maroni. Polemica futile dato che la boutade parte da un governo in coma e da due città a rischio default. Rimanendo sul tema del Giappone, sembra di trovarsi davanti ad un harakiri.
Innanzitutto va rimembrato il rapporto fra Tokyo e le Olimpiadi: la città ha ospitato il megaevento già nel 1964. L’Olimpiade fu l’occasione per il Giappone di ripresentarsi al mondo in gran forma a chiusura del periodo postbellico e della “cura MacArthur”. Gli anni sessanta nipponici furono gli anni delle contestazioni dei differenti trattati nippoamericani ed a posteriori la scelta dell’ultimo staffettista (un ragazzo nato ad Hiroshima il 6 agosto del ‘45) sembra quasi una denuncia sotto forma di torcia olimpica (mentre ai tempi fu visto più come un suggestivo ammonimento nei confronti di possibili crisi atomiche mondiali) all’aggressione occidentale. Le Olimpiadi del 1964 furono le Olimpiadi dell’hi tech, la cui eco ha contribuito anche al successo di questa candidatura.
Tokyo avrebbe dovuto ospitare anche le Olimpiadi del 1940, non svolte causa seconda guerra mondiale. Il periodo fra le due guerre offre spunti interessanti in merito all’utilizzo dei grandi eventi in prospettiva nazionalistica: campionati del mondo di calcio Italia1934, Berlino1936 e Tokyo 1940 a chiusura di un cerchio che all’ultimo è stato dirottato in direzione del conflitto mondiale. Oggi viviamo in un’altra epoca, fuori fortunatamente dalla società delle nazioni ma dentro ad un contesto in cui la celebrazione ideologica ed acritica non scompare dal nostro orizzonte.
Al di là delle parentesi che si possono aprire su ciò che fu, va sottolineato come il Giappone dell’Abenomics (http://www.inventati.org/noexpo/2013/08/25/il-piano-triennale-di-cassa-depositi-e-prestiti-un-nuovo-ordine-territoriale/) è proprio il paese in cui l’acceleratore grande evento si inserisce nella logica delle cose a tutelare oltre tutto il nuovo ordine che lo spregiudicato premier Abe sta imponendo all’intero Giappone, con grande soddisfazione dei mercati. Fukushima non ha per nulla contribuito a formare l’orientamento dei giudicanti, che probabilmente han considerato la questione semplicemente come un problema interno che sarà risolto dalla proverbiale efficienza giapponese. Noi qualche remora in più in realtà ce l’abbiamo, oltre che su Fukushima anche sull’Abenomics, più simile ad una scommessa che ad una scelta economica cautamente pianificata. La scelta non va però giudicata come scelta di una nazione quanto come scelta di un’area, quella asiatica, che nel 2020 realisticamente diverrà ancor di più il nuovo centro del capitalismo mondiale.
Le cronache del verdetto ci raccontano come la delegazione giapponese sia stata molto sintetica e chiara, centrando il proprio discorso sull’hi tech e sulla facilità di muoversi nella metropoli, riservando gran parte del discorso alla componente sportiva. Più suggestive erano le opzioni di Madrid e di Instanbul, propense invece ad offrire considerazioni culturali all’interno delle proprie candidature. Va subito osservato che da principio la gara è sembrata a due: Instanbul e Tokyo. Instanbul in particolare ha giocato la propria candidatura sull’esser ponte fra due continenti a simboleggiare quindi la commistione di culture (nel nome del capitalismo per carità) di cui la retorica olimpica dovrebbe farsi simbolo. Probabilmente ha pesato su questa candidatura da un lato Gezy Park e dall’altro la crisi siriana in cui il paese è nettamente schierato, con la conseguenza di vedersi avversi i paesi dell’altro fronte. La scelta turca comunque non sarebbe stata sorprendente: se l’avessero messa meno sul culturale e più sull’imprenditoriale forse avrebbero avuto più chanche. Il popolo di Gezy Park ha comunque di che rallegrarsi da questa sconfitta: una volta ancora, anche se indirettamente, possiamo affermare che la lotta paga.
A Madrid nessuno credeva in un’eventuale vittoria (a parte Nadal) ma la candidatura ha offerto ai governanti ispanici la possibilità di avventurarsi in ragionamenti post crisi in cui è possibile concepire il grande evento in maniera aggiornata, rendendolo “sostenibile”. La candidatura di Madrid verteva sull’utilizzo di infrastrutture già esistenti (per l’80%) e sulla vitalità della città come valore aggiunto della candidatura. Una candidatura quindi realista rispetto a cui si può dire che, di certo non partorita da uno staff radical o dal comune sentire anticrisi, è stata realizzata da un gruppo dirigente che vuole cercare di trarre una lezione dai maledetti anni zero. Ovviamente i votanti hanno subito pensato che, non essendoci prospettive di sperpero selvaggio di risorse, aveva poco senso considerare Madrid come opzione olimpica. Tanto più che il vecchio continente tutto da qui al 2020 tendenzialmente arretrerà nelle gerarchie del capitalismo mondiale.