C’è un equivoco di fondo nella battaglia politica – una delle più importanti degli ultimi anni – che Alfredo Cospito ha ingaggiato dal carcere contro lo Stato: questa non può essere una lotta di tutti. Certo, del suo esito la collettività nel suo insieme potrà beneficiare o meno, in quanto potrebbe cambiare in meglio un sistema o confermare la volontà della classe dirigente e del suo – vasto, eterogeneo, maggioritario – blocco di sostegno di non modificare e anzi peggiore lo status quo. Ma Cospito resta un anarchico e un militante politico rivoluzionario, al di là della condivisione o del rifiuto delle sue azioni e modalità di lotta.
La battaglia che sta portando muove da una posizione rivoluzionaria e anticarceraria, unendo la questione dei diritti umani e delle condizioni degradanti in cui vengono tenuti i detenuti nelle prigioni italiane; attenzione, non meno importante: è la leva su cui si sta mobilitando – o quanto meno è chiamata in causa e si sta interrogando come non faceva da tanti anni – una parte di opinione pubblica “progressista”. E se è giusto e normale che ognuno traduca secondo le proprie istanze e coordinate culturali una lotta di ampio respiro come questa, la retorica umanitarista rischia in realtà di depoliticizzarne il significato e il valore, alimentando quella narrazione anti-conflittuale che divide in automatico le forme della protesta e della lotta in bene/male, buoni/cattivi. Figlia anche e soprattutto di quelle modalità peculiari in cui si risolse la vicenda della lotta armata di sinistra in Italia, tra pentimento e percorsi riparativi strettamente individuali tra “vittime” e “carnefici”, che evitarono sempre di affrontare invece la questione da un punto di vista collettivo e storico – per non correre il rischio di legittimarla.[1]
L’ideologia della tolleranza, nelle democrazia liberali, qualcuno diceva, diventa di fatto una copertura per censurare, condannare, reprimere, delegittimare ciò che si pone fuori e contro il sistema di valori e l’architettura istituzionale ufficiali – e qui non viene in mente solo Marcuse[2], ma anche il Philip K. Dick di Il mondo che Jones creò dove un regime ufficialmente relativista e democratico è retto da un sistema di controllo poliziesco capillare che, per difenderne i valori di estrema liberalità, è autorizzato a istituire campi di lavoro forzato, carceri speciali, svolgere arresti arbitrari e un controllo morboso dei comportamenti e delle opinioni individuali.
In ultima istanza, il rischio di chi come Ilaria Cucchi difende Cospito invitando a pensarlo “anzitutto come essere umano e non come simbolo”, dicendo che “non ha compiuto nè ispirato, fino a prova contraria, quegli attentati che dimostrano solo di volergli del male” – addirittura “criminali scellerati hanno pensato bene che compiere attentati dimostrativi possa giovare in qualche modo alla sua causa ed alla sua protesta” – di fatto avallano la retorica repressiva verso atti, gesti, azioni di protesta diretta e per lo più mirate verso cose e non persone, separando ancora una volta in “buoni” e “cattivi”, legittimando anzi la sospensione del diritto verso chi invece compie “attentati dimostrativi” o azioni violente. Ricorda drammaticamente i giorni del G8 di Genova e le polemiche dei due decenni successivi, quando anche tra le fila “No Global” e della contestazione si diceva che se alla Diaz ci fossero stati davvero i “black bloc” allora l’intervento poliziesco sarebbe stato giusto.
Delegittimare anche ciò che i compagni di Alfredo stanno facendo in suo supporto, secondo la prassi e i modi dell’anarchismo informale di cui anche lui fa parte, significa separarlo dal suo stesso mondo. E qui sta l’errore. Un tempo, proprio quando quella singolare convergenza tra destra, settori conservatori e PCI produsse la “stagione dell’emergenza” con le sue leggi speciali, il fronte garantista e democratico aveva ben chiaro che l’eccezione nell’uso del “monopolio legittimo della forza” da parte dello Stato e le diversificazioni all’interno del diritto penale avrebbero portato a torsioni autoritarie nel campo del diritto, nell’immaginario e nella narrazione pubblica, nella cultura politica costituzionalista e in quella che, almeno fino alla metà dei Settanta, ne era stata la principale oppositrice perché consapevole di essere il primo obiettivo nel mirino – la sinistra. In ultima istanza, una distorsione nella gestione del potere.
Si prenda ad esempio la celebre polemica di Leonardo Sciascia con il generale Dalla Chiesa, quando questi chiese ulteriori poteri speciali tornato dal terrorismo alla lotta alla mafia nell’82:
Già in Sicilia – scriveva Sciascia – polizia e magistratura hanno poteri sufficientemente a-costituzionali, e non anti-costituzionali, come quello del ripristinato confino di polizia. Che cosa si vuole oltre? Il coprifuoco, la deportazione, la decimazione? Io sono convinto che di poteri il generale Dalla Chiesa ne abbia avuti già troppi nella lotta contro il terrorismo, e ne è discesa quella legge sui pentiti che nessuno, spero, verrà a dirmi abbia a che fare con l’idea di giustizia e con lo spirito e la lettera della Costituzione.[3]
E proprio a proposito della legge sui pentiti e il regime di carcerazione speciale istituito nel 1977 – il cosiddetto “circuito del camoscio” – per rispondere alla lunga serie di evasioni da parte di militanti della lotta armata dal ’75, furono diversi magistrati e giuristi[4] a criticare una normativa premiale che introduceva un doppio canale di giudizio sul crimine commesso, ripristinando de facto e de iure il reato politico nella sua dimensione originaria extra ordinem, derogando al diritto penale ordinario. Il 41-bis, che modificò nell’86 una legge già di per sé punitiva e dal carattere preventivo come quella del ’75, in tutte le sue versioni successive confermò proprio questo impianto di deroga punitiva “a-costituzionale”, avrebbe detto Sciascia, eludendo e rimuovendo la domanda di fondo che il fronte garantista poneva anche a quella parte di sinistra – Partito comunista in testa – disposta ad assecondare il peggioramento di norme originariamente pensate proprio contro i comunisti, in quel periodo in cui in nome dell’antiterrorismo (ovviamente “rosso”) si poteva commettere qualunque violenza di Stato e arbitrio giudiziario: ma di strumenti, i giudici e gli apparati di sicurezza, non avevano già abbastanza?
In secondo luogo, si riconosceva lo status di detenuti e, prima della cattura, militanti politici anche a chi si rendeva colpevole di reati violenti di natura politica e, dopo l’istituzione di apposite leggi che ne riconoscevano il reato (cosa che non avvenne nel quinquennio nero apertosi con Piazza Fontana), terroristica e si chiedeva che lo Stato e le forze politiche facessero altrettanto. Non solo Il Manifesto, ma anche i Radicali e persino i socialisti (pur con la libertà di voto interna) e una componente di quel movimento dal basso che aveva animato negli anni precedenti la contro-informazione, in occasione del varo delle leggi speciali e dei processi politici come quello celebre del 7 Aprile, si batterono proprio per fermare quel processo di repressione e vendetta ingaggiato dallo Stato e trovare una soluzione politica per l’uscita dall’emergenza – e dall’insorgenza.
Oggi tutto questo non esiste più: la dottrina umanitaria, la retorica che invoca la revoca del 41-bis solo a Cospito in quanto “essere umano”, non va oltre ciò, resta disarmata di fronte al senso comune giustizialista e piccolo-borghese che sbava perché lui e i “criminali” come lui marciscano per sempre in galera – e possibilmente in regime speciale; non è in grado di rispondere a quella domanda radicale che interroga non solo il senso – e il fallimento operativo – di istituti come appunto il 41-bis e l’ergastolo (ostativo o meno), ma del sistema carcerario nel suo insieme, della sua funzione in un ordinamento democratico.[5] Tutto pur di non parlare l’unico linguaggio che restituisce valore e potenza alla lotta di Alfredo – quello della politica, in quanto tale divisivo e conflittuale. Quel che ci aspettiamo da questa opinione pubblica che si autodefinisce “progressista”, quel che dovrebbe e potrebbe essere possibile, non è la conversione delle masse all’anarchismo: ma che queste, nella loro componente democratica, e gli intellettuali che timidamente si espongono per ragioni umanitarie riscoprano la radicalità, possibile e necessaria, per rompere la unanimità reazionaria con tutti i suoi orrori e le sue storture, di cui sono anche loro complici da troppo tempo. Senza riconoscere il carattere politico del “caso Cospito”, non potrete mai difendere pienamente quei diritti umani di cui parlate – sempre relativamente a contesti lontani nel tempo e nello spazio – né comprendere appieno la portata delle sue rivendicazioni e della sua lotta.
E.
[1] M. Galfrè, La guerra è finita. L’Italia e l’uscita dal terrorismo, 1980-1987, Editori Laterza, Roma-Bari 2014
[2] R. P. Wolff, B. Moore Jr, H. Marcuse, Critica della tolleranza. La forma attuale della tolleranza: un mascheramento della repressione, Einaudi Nuovo Politecnico, Torino 1968
[3] L. Sciascia, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), p. 59, Bompiani, Milano 1989
[4] S. Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie del sistema penale, Esi, Napoli 1995
[5] Questo è stato drammaticamente dimostrato dalle rivolte carcerarie del marzo 2020 e dalla strage (quella sì) nel carcere di Modena e nelle altre prigioni durante la repressione, oltre che dalla mattanza a Santa Maria Capua Vetere (vicino Caserta). A questo riguardo, cfr. L. Romano, La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane, Monito edizioni, Napoli 2021