Esternalizzazioni e salari da fame: con la Cultura non si mangia!

Nelle ultime settimane è stata resa nota un’indagine della Procura di Milano che ha svelato che proprio nel settore della cultura, la cooperativa F.eMa. (ora commissariata) corrispondeva ai suoi dipendenti stipendi da fame per prestare servizio presso eventi, teatri e musei.. Non è certo l’unico caso di lavoro sottopagato in città, sempre presente e sempre in crescita, in particolare su alcuni servizi dove è più facile sfruttare le fragilità dei prestatori d’opera, specie se migranti e ricattati dal rinnovo del permesso di soggiorno. E’ però un caso emblematico perchériferito alla fornitura di servizi a importanti istituzioni pubbliche, controllate da soggetti istituzionali, in un settore in cui la dimensione della cultura è sempre più subalterna al marketing della città-vetrina e della sua cornice ideologica – il territorio urbano da riempire di eventi, grandi e piccoli, da consumare veracemente e in ogni suo aspetto. Istituzioni che nel prossimo anno, nella cornice Milano-Cortina 2026, avranno un ruolo centrale. In particolare, parlando delle fondazioni alla guida del Piccolo Teatro e del Teatro alla Scala, queste, per quanto non coinvolte nell’indagine, sono il soggetto che del risparmio sul costo del lavoro si avvantaggia indirettamente. Si parla di retribuzioni considerate sotto la soglia di povertà, che oscillano tra i 4/5/6euro netti l’ora. Stipendi molto bassi che non garantiscono condizioni di vita dignitose: sono quelli che percepiscono  lavoratori e lavoratrici di molte cooperative attive nei musei, nei teatri, nelle fondazioni; custodi e maschere con un’alta qualifica di studio (lauree, master, conoscenza di una o più lingue straniere) che non costituiscono più un valore aggiunto al curriculum.

La vicenda non ha destato particolare preoccupazione nelle stanze dei bottoni milanesi, in particolare in quella con sede a Palazzo Marino che, molto semplicemente, nei prossimi bandi suggerirà l’utilizzo del contratto Federcultura: ultimo rinnovo sul triennio 2019/2021 ed in grado di fornire, sul lavoro festivo molto utilizzato nei teatri o nei musei, una maggiorazione del 20% contro il 50% disponibile nel CCNL P.I. Enti locali, in cui esistono numerosi profili adeguati per la copertura dei servizi richiesti. Sarebbero però assunti direttamente dall’ente, che negli ultimi anni ha preferito non assumere, a parte che sul profilo di Agente della Polizia Locale. Questa però è un’altra storia.

Al pari di quel che accade in varie regioni UE pre espansione a 27 paesi, le politiche sul lavoro operate dai soggetti pubblici sui propri lavoratori rimangono condizionanti dell’intero mercato del lavoro. Sui 23 milioni di lavoratori ed oltre segnalati da INPS sul 2023, circa 18 milioni sono i lavoratori dipendenti e fra questi 3,6 milioni i lavoratori pubblici. Numeri quindi ancora rilevanti, nonostante in costante ribasso, rispetto all’intero panorama del mercato del lavoro.  Per quanto a livello salariale i contratti nazionali del pubblico impiego offrano retribuzioni inferiori rispetto agli altri principali contratti, sul versante dei diritti il pubblico impiego rimane ancora una zona sufficientemente tutelata ed in grado di offrire minime garanzie a chi lavora, seppure da anni sia in atto un’erosione preoccupante, in particolare del livello salariale ma anche dei diritti.

Certo, gli stipendi dei dipendenti pubblici non sono una eccezione rispetto al più complesso panorama del paese. Ad accompagnare il declino del lavoro tout court è anzitutto un sistema di contratti oramai fuori controllo: nel 2015 esistevano 398 contratti, nel 2024 troviamo depositati al CNEL addirittura 1.037 contratti collettivi nazionali, alcuni dei quali rivolti a qualche decina di lavoratori. All’interno di quella che, con il beneplacito delle organizzazioni sindacali confederali, è una vera e propria esplosione della contrattazione nazionale, è riassunto l’esito della liberalizzazione selvaggia del mercato del lavoro: una contrattazione che ha reso soverchiante il peso dei datori di lavoro a discapito dei lavoratori. Questo si traduce in salari incredibilmente bassi e in una diminuzione della capacità delle vertenze di incidere sul rispetto dei diritti basilari o sul loro avanzamento. Ciò determina quindi una condizione di pesante dualità contrattuale, in particolare nel campo delle forniture di servizi alle aziende, in continua espansione per via della mai placata (se non a parole) tendenza all’outsourcing: un mercato del lavoro con un gruppo di lavoratori maggiormente garantiti e stipendiati, inseriti nei grandi contratti nazionali, ed un altro diassunti alle volte sulle medesime funzioni del personale interno, ma retribuiti e garantiti nei propri diritti a livelli decisamente inferiori.

Perché abbiamo esordito parlando di pubblico impiego? Perché, come per le case popolari, divenendo incidente sull’intero mercato, il pubblico funziona anche da punto di riferimento e da calmiere dell’intero mercato. Il potere politico, di fatto, è il soggetto regolatore di salari e diritti in primis (NON SOLO, ci mancherebbe) attraverso i contratti di lavoro di cui è legislatore diretto. Si era parlato, tramite un passato contributo, di salario minimo territoriale, misura certo a cui sarebbe preferibile un salario minimo nazionale se non europeo, però già realizzabile e sperimentato da alcune realtà locali. La recente vicenda, con importanti rilievi giudiziari, della cooperativa Fe.Ma., rende urgente un intervento in questa direzione, a vantaggio quindi dei lavoratori e non come sempre delle aziende, o delle organizzazioni confederali come la CISL, a difesa del noto intreccio di interessi collegato al mondo cooperativo. 

Si fa notare, a margine, che per chi lavora in regime ENPALS (Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza ai Lavoratori dello Spettacolo) non conviene più assumere in busta paga ma come autonomi dello spettacolo: le politiche previdenziali e fiscali favoriscono la parcellizzazione del lavoro e contrastano di fatto il lavoro dipendente: per esempio, se nel 2023 l’aliquota contributiva di un attore dipendente era del 38,5% e di un attore autonomo il 36,5%, nel 2024 l’aliquota del dipendente è salita al 39,5%, quella dell’autonomo scesa al 35,5%, a fronte di un regime forfettario IVA alzato da 60 a 85.000€ con imposta sostitutiva al 15%,  contro l’IRPEF dei subordinati che parte già dal il 23% fino ai 15.000€ per arrivare al 43% con redditi sopra i 50.000 euro.

L’unico motivo oggi per assumere in busta paga, per chi lavora nello spettacolo, è ricevere un finanziamento dal FUS (Fondo unico per lo spettacolo, istituito nel 1985 al fine di ridurre la frammentazione dell’intervento statale, è attualmente il principale strumento di sostegno al settore dello spettacolo dal vivo e della cinematografia) che in pratica te lo impone (le giornate lavorative degli autonomi sono calcolate al 50% se non meno, mi pare), ma che sta diventando uno strumento sempre più critico e criticato dalle associazioni di settore (vedi C.re.s.co con tutte le sue interrogazioni mandate al Ministero) perché riguarda un numero sempre più esiguo di realtà rispetto al panorama nazionale.

Viviamo in un Sistema-Paese che fa della “cultura” e dello “spettacolo” i pilastri di un’economia sempre più basata sulla monocoltura turistica rapace e parassitaria (da parte di alcuni ceti proprietari e imprenditoriali sulle spalle di comunità e lavorator*); la cornice ideologica esalta, in maniera bipartisan e con una buona dose di abuso pubblico della Storia e del passato, la “italianità” in tutte le sue declinazioni (cucina, beni culturali, musica, paesaggio, arte) come brand economico e valore politico. La stessa Milano, entrata nel circuito turistico nazionale da Expo 2015, fonda la sua attrattività sull’essere divenuta una città-evento. Il paradosso, solo apparente come ci ha insegnato un quarantennio abbondante di neoliberismo straccione, è che chi sostiene tutto questo sulle proprie spalle (assieme ai settori dell’indotti e collegati, dalla ristorazione ai tecnici, passando per operai* della logistica e dei trasporti, sino al volontariato studentesco e associativo) non può vivere del proprio lavoro; e secondo la retorica neoliberale è trattato come un “imprenditore di sé stesso”, per scaricare i costi su sé stesso invece che sui datori di lavori (pubblici e privati) che usufruiscono del valore da questi prodotto. Un altro tassello da scardinare, a partire dalla Milano “locomotiva d’Italia”.