Sei mesi fa, quando l’emergenza epidemiologica scoppiava in tutta la sua violenza; quando il lockdown e lo stato d’emergenza venivano imposti nel nuovo patto sociale della pandemia; quando si iniziavano a vedere i primi, possibili effetti sulla città e sulla normalità, e noi, la nostra parte – ma non solo: è stato tutto il tessuto vivo delle comunità di quartiere a rispondere -, presa inizialmente alla sprovvista da una situazione inedita rispondeva con il mutuo soccorso delle Brigate e con tentativi di analisi utili al dopo, ci interrogavamo proprio sul diritto alla città ai tempi del colera. Il pezzo che pubblicammo si chiudeva con la riflessione portata avanti da Franco Fortini sul significato sociale della peste di Manzoni:
la rivoluzione, ma non quella robespierriana con la sua fede nella perfettibilità indefinita dell’uomo, bensì quella della rivolta agraria, di tradizione secolare, quella che deve divellere le pietre di confine della proprietà. La traduzione in italiano della rivoluzione francese appariva innanzitutto … la rivoluzione sociale, dunque della guerra civile: il disordine supremo.
Adesso, a distanza quindi di 7 mesi dall’inizio dell’emergenza e a quasi 5 dal termine della cosiddetta “fase 1”, qual è il contesto nel quale ci troviamo a operare qui, a Milano, nel cuore della regione che più di tutti ha pagato non solo la violenza del virus ma anche e soprattutto la sua gestione sociale e politica?
Purtroppo partiamo dal presupposto che quella normalità a cui non volevamo tornare, sebbene viva una situazione effettivamente di transizione verso una forma nuova, difficile da indovinare ma non necessariamente migliore – anzi -, è comunque prepotentemente tornata: nei desideri di gran parte della popolazione e nei piani degli amministratori locali, nelle soluzioni già note per rispondere alla crisi economica, nella sua cultura cinica e feroce che sta determinando la selezione dei sommersi e salvati nella città del dopo-lockdown – proprio come l’ha imposta nel sistema sanitario in piena emergenza. Se la osserviamo dal punto di vista del diritto alla città, possiamo osservare il presente secondo tre pilastri: gli abitanti, il lavoro, lo spazio urbano e la rendita.
Partendo dal dato degli abitanti, a inizio settembre l’ultima inchiesta anagrafica ha registrato 12mila residenti in meno; questi possono essere interpretati come effetto della minore attrattività di Milano in questa fase. E l’attrazione a Milano è indubbiamente il lavoro – soprattutto quello di alto profilo. La diffusione dello smart è per ora privilegio di categorie professionali medio-alte, sia in termini di funzioni sia di reddito. Lo smart ha visto come effetto principale lo svuotamento del centro, le zone degli uffici, e la misura sta nel numero di esercizi commerciali – in particolare quelli per la ristorazione – che non hanno riaperto da maggio in poi. L’altro dato interessante è che, proprio grazie alla possibilità offerta dal lavoro a distanza, buona parte di questo ceto specializzato sta rivolgendo la propria ricerca di casa fuori da Milano, nella cintura esterna di prima e seconda fascia, dove gli affitti sono tendenzialmente più bassi.
Ma c’è anche un’altra ipotesi da sviluppare, a proposito della tendenza al calo demografico: la maggiore offerta di case, rivolta soprattutto a studenti e lavoratori, salita a +290% nel dopo-lockdown. Qui dentro si può trovare di tutto: dalla grossa società immobiliare al piccolo privato che, a fronte di una caduta del reddito cui non è corrisposto un ribasso del costo della vita, sceglie di destinare la prima casa all’affitto e spostarsi fuori. Infine, nel processo rappresentato da questi 12 mila vi sono anche i ceti più fragili, quelli che il mercato e i suoi padroni non considerano parte della domanda economica: sono quasi 17mila le richieste di sostegno all’affitto arrivate al Comune da maggio a settembre; solo una piccola parte potrà essere soddisfatta con le risorse attualmente in campo.
Gli studenti sono l’altra categoria che non è arrivata – al completo – dopo l’estate, perché le università ormai sono ben attrezzate per la DAD. Però gli affitti delle camere – così come il valore del mattone milanese – non sono calati, segno che non si tratta di sostegno al reddito dei locatori, ma esclusivamente azione di speculazione. Il capitale deve rendere, sempre, senza eccezioni. La casa nelle zone centrali rimane un bene esclusivo, disponibile solo per soggetti solventi per posizione sociale e disponibilità economica, nonostante la domanda totale sia diminuita in modo significativo.
Sullo spazio urbano l’aspetto principale che ci restituisce l’attuale situazione è sintetizzabile in questo: il post covid si caratterizza per un grande spiegamento di azioni “di facciata”, puro brand, per esempio tutto il tactical urbanism e gran parte delle nuove ciclabili. Come sempre i momenti di crisi vengono risolti con una “ricomposizione”: nel caso della ristorazione e dell’alberghiero in crisi, molti bar e ristoranti hanno chiuso, alcuni hanno resistito, altri addirittura hanno approfittato per acquisire e trasformare. Di solito si osservano concentrazioni con società sempre più grandi che controllano molti punti vendita. Le vittime di questa strategia sono come sempre la partecipazione – limitata a entusiastico assenso e ricerca del consenso – e i soggetti più deboli, quelli che fanno schifo anche al PD.
Nel mentre anche l’accesso all’essere cittadino diventa sempre più esclusivo. Se fino ad ora per essere qualificato come tale, un cittadino doveva già soddisfare una serie di requisiti legali rigorosi (es: luogo di nascita, un documento valido, un lavoro, etc ) con la digitalizzazione forzata voluta dall’emergenza, deve anche essere allineato con i requisiti dettati della smart city in ambito digitale.
Le app “a servizio del cittadino”, che siano per servizi pubblici o privati, necessitano un passo in avanti digitale che però rischia di lasciare indietro quella fascia di popolazione già duramente colpita dall’emergenza. Ma anche superato il gap tecnologico individuiamo altre due questioni meno appariscenti:
- La tutela algoritmica. Come e da chi vengono gestiti i dati raccolti dai servizi che costituiscono i la smart city? Che tecnologie vengono utilizzate nella raccolta dati e come possono essere regolate o messe in discussione? Per gli attuali servizi di mobilità di sharing il Comune di Milano non si è impegnato a tutelare i dati dei sui cittadini imponendo che non vengano utilizzati con scopi commerciali e profilazione. In alcune città (es: San Francisco) è stato vietato l’utilizzo di algoritmi di riconoscimento facciale nelle telecamere. Qui invece il dibattito è a zero e si tessono ciecamente le lodi del check-in a Linate tramite proprio l’utilizzo di questa tecnologia.
- Il cittadino diventa utente. Quando il rapporto tra cittadino e istituzioni è gestita tramite un’intermediazione tecnologica digitale, la partecipazione prende la forma di un commento/valutazione (feedback) trasformando la posizione di cittadino in quella di utente. L’esperienza dell’utente/cittadino diventa uno-ad-uno con l’istituzione e quindi iper-individualizzata, isolata…ne deriva una perdita di autonomia, di capacità di agire collettiva.
Vivere nella smart city di oggi significa essere in uno stato di costante transizione tra l’essere cittadino e l’essere Utente dove le disparità sociali vengono regolate e automatizzate attraverso servizi erogati dalle macchine (spesso di proprietà delle big tech), producendo nuovi ambiti di esclusione nell’urbano.
Secondo una nota metafora, il denaro non è una automobile che, sebbene inutilizzata, può essere parcheggiata in un garage e non ha un costo di conservazione: il denaro è piuttosto un cavallo, che sebbene inutilizzato e lasciato nella stalla, ha comunque un costo, deve essere nutrito e curato costantemente. La crisi del centro-vetrina, la non risposta delle professioni medio-alte, la caduta della domanda di affitto per studenti, il calo di residenti: se tutto questo significherà una perdita di redditività anche per il capitale e di valore per il mattone milanese lo vedremo solo nei prossimi mesi – e dipenderà in buona parte dalle lotte che saremo in grado di avviare e portare avanti. Infatti, quando prima dicevamo che la normalità sta cercando di imporsi nuovamente anche se non lo potrà fare e dovrà necessariamente mutare molti suoi aspetti, ci riferivamo proprio alla posta in gioco: per chi verrà ricostruita la città del dopo-colera? Cosa si deciderà di sostenere: gli abitanti, le persone che la attraversano, vivono, che si curano, si divertono, vivono e creano conflitti, che vi lavorano, che studiano e che portano i figli a scuola, che vi si nutrono; o la scommessa speculativa che rende ogni metro quadro della merce da mettere a valore non per il suo utilizzo ma per il suo scambio e la sua destinazione d’uso?
Il modello-Milano è un “modello-bolla”. E lo è precisamente, come la maggioranza delle bolle finanziarie, perché pretende che la società reagisca e risponda come se il modello e il contesto richiesto dall’investimento di capitale fossero reali. E quindi piegarla quando il comportamento sociale differisce – o vorrebbe farlo. La sovversione di tendenza è la capacità uscire dalla bolla, rifiutarne i meccanismi, resistere un minuto in più quando si sgonfierà o esploderà.