Un nostro compagno ha scritto un articolo di aggiornamento su Expo 2015 per ControPiano, lo riproponiamo per la sua diffusione anche su questi schermi.
I movimenti che si oppongono all’operazione Expo 2015 a Milano raccontano la genesi e gli obiettivi della loro mobilitazione. “No Expo come negazione non è più bastante: un nuovo punto di vista in grado di generare una diversa visione del territorio è la sfida che questa crisi ci impone”.
Lo stato dell’arte
“La guerra del Golfo non avrà luogo”, così intitolava Baudrillard uno scritto molto suggestivo del periodo fantascientifico della sua saggistica. Si riferiva al rapporto realtà/finzione e di come quest’ultima fosse in grado di manipolare il dato reale sino al punto di rovesciare la sua relazione in un rapporto che così diviene finzione/realtà. L’immagine della guerra non è la guerra, appunto. L’immagine di Expo2015 non è Expo2015.
Questo avremmo potuto affermare, se non fosse esplosa la crisi del reale: crisi del debito, stallo del ciclo finanza/mattone, la crisi del modello di governance che a oggi impedisce al grande evento del 2015 di essere quello che avrebbe voluto essere, un dispositivo composto da un mix di marketing territoriale, speculazione immobiliare e sperpero di denaro pubblico. In un’epoca in cui la governance è costretta dalla sua crisi a ragionare sul proprio futuro giorno per giorno, senza idee chiare, Expo2015 è diventato più un fardello che un’immagine di copertina, o quanto meno un miraggio rispetto cui si afferma tutto e il contrario di tutto, con esiti quanto meno contradditori.
Oggi, marzo 2013, rimangono in pista alcuni dei leit motiv che hanno caratterizzato la vulgata pro expo, in linea col sistema di potere che ne ha garantito sino ad ora la resistenza. Parliamo ancora di città vetrina, la vetrina non è però più sufficiente a nascondere le macerie nel retrobottega, straripate ormai in ogni dove.
Expo2015 non è più la visione che trasforma la realtà. Trattiamo quindi non più il grande Expo ma il suo spettro, una versione del megaevento inserita nel clima della spending review.
Anche questa versione ridotta continua a essere, per i suoi sostenitori, un mezzo per rilanciare l’intero sistema economico nazionale oggi in piena recessione (PIL del 2012 a -2,4%): al di là delle considerazioni che si possono fare sulla sensatezza dei ragionamenti che identificano ancora l’esistenza netta e circoscritta di economie nazionali, al grande evento si attribuisce ancora un ruolo di potenziale mezzo di rilancio per l’economia, le cui ricadute sociali consistono nella creazione di nuovi posti di lavoro, finanziati in larga parte da fondi pubblici. Pazienza se ci sono ripercussioni negative sull’ambiente. Se il grande investimento pubblico si realizza però in epoca di recessione gestita nel contesto di una politica internazionale votata al rigore dei conti, l’investimento diviene sostanzialmente debito da gestire. Ciò significa che o l’opera pubblica possiede una funzione strategica in grado di rilanciare interi settori dell’economia, oppure l’investimento è da evitare. A rischio, oltre ovviamente a quel rispetto dell’ambiente che nell’ultimo secolo è stato il grande assente all’interno delle differenti teorie economiche (e dei discorsi da bar, fondamentali per recuperare consenso), ci sono i bilanci degli enti locali e di conseguenza i servizi pubblici.
E’ molto curioso osservare come la vulgata che professa questo credo (della grande opera per creare posti di lavoro), di matrice squisitamente keynesiana, sia in realtà promotrice del neoliberalismo duro e puro e strenua protettrice della sua egemonia culturale. Quando si parla di drenaggio di risorse pubbliche anche il motto anch’esso keynesiano di scavare una buca per poi ricoprirla, in altre parole ogni azione è valida purché alimenti economia, diventa buon argomento di discussione per difendere il saccheggio. E se il debito assume dimensioni non gestibili nonostante la continua riduzione di servizi pubblici (sostituiti dalla sussidiarietà, rispetto cui occorre ancora dimostrare il minor impatto sui bilanci)? Qui sorge il primo problema, il più grave e il più determinante che ci spiega in parte il motivo dell’attuale situazione di stallo dell’immaginario Expo2015, che si traduce in una comunicazione in sordina, nella mancata presa di responsabilità pubblica delle istituzioni, nell’assenza di un progetto per il padiglione Italia. E’ senz’altro la cassa il principale motivo per cui il folle progetto di rete autostradale lombardo, comprendente Teem, Pedemontana, Brebemi e Broni-Mortara, è in coma profondo, nonostante i buoni propositi di Cassa Depositi e Prestiti, colosso finanziario che da un lato ha grande disponibilità finanziaria, ma dall’altro non ha interesse nel buttare al vento miliardi di euro. Proprio CDP è un soggetto molto interessante in questo momento a livello nazionale, essendo l’unico soggetto ad avere una disponibilità finanziaria quasi illimitata e, proprio grazie ad essa, si sta inserendo all’interno di ogni operazione di privatizzazione di beni pubblici, SEA e Serravalle sono due casi territoriali chiave per la Milano metropolitana che sta crescendo attorno e oltre ad Expo.
Il problema per alcuni sembra il patto di stabilità, non cambierebbe però granché nemmeno se i cordoni del patto di stabilità fossero allentati e i finanziamenti arrivassero in maniera più allegra: in questo contesto ciò che accadrebbe sarebbe solo un aumento delle perdite.
L’arte dello Stato
Qual è la risposta dell’istituzione progressista all’interno di questo disegno? Sia la giunta Pisapia sia la mancata giunta Ambrosoli, hanno a lungo insistito sulla possibilità di un altro Expo, il famigerato Expo diffuso, riproposto anche nell’ultima campagna elettorale regionale a due anni dal grande evento in un momento in cui le cave sono scavate, le ruspe sono in azione e il masterplan sull’area Expo è sostanzialmente immutabile. Ancora malleabile è la questione della Via d’acqua, anche se in merito le istanze di alcuni comitati cittadini sul progetto della Darsena sono state rigettate. L’Expo diffuso, nonostante il termine faccia pensare a una riforma in chiave democratica dell’organizzazione del megaevento, non significa regia multicentrica o concessione di deleghe all’iniziativa civica, bensì una richiesta di aiuto alla cittadinanza per tappare i buchi che rischiano di svuotare il grande evento. A stretto servizio della buona riuscita economica dell’affare, a costo di qualsiasi sacrificio ambientale e sociale, l’Expo diffuso è una rete a servizio del megaevento e delle sue direttive già determinate.
La ricetta per Expo dell’istituzione che volgarmente nominiamo progressista, oltre ad una proposta di sostanziale riforma dell’organizzazione dell’evento, oltre all’Expo diffuso quindi, si compone anche di una strategia che ha come obiettivo quello di rioffrire all’evento un nuovo senso, anche molto differente dalla sua sostanza (speculazione e devastazione del territorio vengono intesi come effetti collaterali evitabili con dispositivi di controllo classici) ma che possa almeno far assolvere al grande evento la funzione di trampolino per interi settori dell’economia italica per rilanciare appunto il brand Italia. Occorre riscattare il vuoto semantico creato da tre anni di tangenti, risse in galleria e calcoli errati. Che lo si voglia o meno, questa è la sostanza della nuova partita, rispetto cui l’istituzione politica è solo uno degli attori in campo.
Non c’è alcuna ricetta su Expo per il nuovo presidente Maroni, che potrebbe continuare a far gestire il carrozzone a Formigoni (che potrà quindi chiudere gli affari con i suoi amici), rinforzare le relazioni con le ndrine (molto proficui in Brianza) ma che è ben lungi dall’avere una ricetta per un rilancio dell’immagine di Expo, trovandosi a capo di una forza regionale (forse sarebbe meglio dire provinciale) che appende adesivi sui cassonetti dell’immondizia con scritto “No al cous cous sì alla polenta”, alla faccia dell’internazionalismo e del “Nutrire il pianeta”….
La situazione politica strettamente intesa non è, però, da ritenersi così centrale in questa vicenda, e il dossier di Alessia Gallione (unico scritto uscito sul caso, il che è tutto un dire….) ha proprio nel partitocentrismo il suo principale difetto. E’ un errore leggere i fatti dell’area metrolombarda di questo decennio, considerando il potere politico al comando della storia, poiché la regia di questa fase economica, politica e sociale non è retta da un governo ma da una governance. Poteri economici, finanziari e occulti formano un quadro della vicenda ben complesso che non si limita fra l’altro al semplice caso del megaevento ma che tende a ridefinire gli interi equilibri di poteri quanto meno regionali. Esemplare è il recente caso di Torino, in cui le ricadute delle Olimpiadi hanno imposto alla città il commissariamento di fatto da parte della Fondazione San Paolo.
Anche per Milano Intesa San Paolo ha un ruolo da protagonista, essendo di Expo2015 il partner finanziario ed essendo dei progetti successivi a Expo, in area Expo e zone limitrofe, un grande finanziatore (è parte di Euromilano). L’immobiliare e la gestione di risorse pubbliche sono i due terreni su cui la banca lombardo/torinese avanza nuove pretese realizzabili con l’ausilio del megaevento e della shock therapy che questo impone.
I partner di Expo2015 sono senz’altro rivelatori della direzione del megaevento, occorre dire molto prevedibile. Il partner tecnologico è Finmeccanica, azienda in parte pubblica e totalmente controversa, ora alle prese con la maxitangente che le è costata la vendita di elicotteri all’India. Tecnologia come hardware, come settore in cui s’investono grandi capitali, spesso a scopo militare, niente a che vedere col decantato settore nuove tecnologie per come ci viene presentato. Il partner alimentare non è Slow Food (Carlo Petrini, anch’esso personaggio controverso, da tempo ha abbandonato la piattaforma Expo) ma è la Coop, la catena rossa di centri commerciali fra le più grandi d’Europa. Alla faccia dell’agricoltura di prossimità. 3 grandi protagonisti, tre grandi attori forse tutti leader nel rispettivo settore a simboleggiare la partecipazione dell’Italia che conta al megaevento. Coop installerà in area Expo anche il “supermercato del futuro”. Vedremo cosa significherà, con questa crisi speriamo sia almeno economico…..
Oltre ai partner ufficiali ovviamente ricordiamo alcune aziende che già adesso stanno facendo cassa attraverso i lavori del sito Expo: CMC, prima appaltatrice del primo appalto (quello in merito ai lavori di rimozione degli ostacoli per la costruzione della piattaforma Expo), oramai divenuta celeberrima grazie agli appalti conquistati in tutta Italia e oltre (prevalentemente TAV e autostrade, attiva anche in Africa ed Indocina) e Mantovani Spa, già impegnata nella costruzione del Mose e del Passante di Mestre, ora senza amministratore delegato (in galera per tangenti).
Ci troviamo in definitiva davanti a una rete di potere la cui attività travalica nettamente la dimensione di Expo2015 rispetto cui non esiste per ora alcun livello di contrapposizione. Una rete di potere il cui scopo è rilanciare una nuova accumulazione intercettando le conoscenze del general intellect, espropriando beni pubblici e aggredendo il suolo a colpi di cemento.
No Expo
L’attitudine No Expo è stata sino ad ora estremamente minoritaria nella società metrolombarda, anche perché altra rispetto alla posizione delle istituzioni tradizionali di sinistra locali. La nostra prospettiva mira a un’alternativa democratica al governo del territorio oltre le posizioni laburiste, per esempio della Camera del Lavoro milanese, che invece ritiene ancora Expo2015 come reinterpretabile e che addirittura lo propone, per esempio, come risposta alla questione esodati….ci sorprende inoltre notare come le parole d’ordine della sinistra itsituzionale milanese siano “start up” e “creare nuovi mercati” quando evidentemente in questo contesto sarebbe meglio concentrarsi su un welfare metropolitano all’altezza dei tempi. La nascita di numerose nuove microaziende, figlie senz’altro della crisi, ha un nome che già negli anni 90 imperversava nei paesi capitalistici più avanzati: bubble economy.
http://www.iltempo.it/economia/2013/02/19/pmi-nel-2012-chiuse-365-000-imprese-1.1110764
Negli ultimi tre anni in tutto il paese ne sono sorte a migliaia, ma solo nel 2012 in ben 365 mila han chiuso i battenti. In virtù di ciò continuiamo a sorprenderci per alcune ricerche, l’ultima delle quali partita dall’università Bocconi pubblicata il 18 febbraio (http://www.expo2015.org/area-stampa/comunicati-stampa/expo-2015-un-impatto-25-miliardi) in cui il mondo sembra fermo al 1991, ed in cui vengono attribuiti ad Expo numeri fuori luogo, per alimentare l’operazione di autoconvincimento sull’utilità di Expo da parte di Expo spa, di cui riportiamo la tabella riassuntiva
Rispetto cui, nella casella impatti diretti, sono riportate in pratica le spese (per cui il costo in denaro pubblico del grande evento), nella seconda casella sono riportate alcune stime sul presunto impatto turistico del megaevento, colto dipanando la folta coltre di nebbia che lo avvolge (abbiamo per caso elementi su quali saranno le attrattive di Expo2015?!?), nella terza casella appunto ritroviamo un riferimento a quel processo che potenzialmente potrebbe essere una bolla (appunto la bubble economy che abbiamo appena menzionato), un riferimento alla presunta valorizzazione immobiliare, in proposito della quale dobbiamo ricordare che dal 2009 al 2012 la svalorizzazione del mattone nel nordovest milanese è di circa il 20% e l’invenduto è molto ampio, e sarà ancor più esteso una volta che i progetti di Euromilano saranno realizzati (per non parlare dell’esempio di Saragozza2008), mentre gli ultimi due riferimenti (IDE + sviluppo turistico) richiedono una lettura delle carte per poter compiere una qualsiasi stima. La ricerca è condita dalla bizzarra affermazione di Diana Bracco, “Sono convinta che l’Expo sarà il primo grande evento del dopo crisi”, poiché nel 2014 ci saranno i mondiali di calcio in Brasile che certo non accadranno in un paese in crisi mentre per l’Europa la crisi sembra assumere una forma irreversibile e pensare di uscirne entro il 2015 a oggi pare più una scommessa su un cavallo pazzo piuttosto che un dato di realtà.
Rimane però interessante l’orizzonte delle microaziende (come abbiamo visto il contrario del corpo di Expo2015 i cui partner sono corporation o coopcorporation) come “motore del cambiamento” a sostegno della ripresa dell’economia, a sostegno quindi del mantenimento dello stato di cose. “Changemakers for Expo2015” è la forma attraverso la quale Expo2015 si mostra promotore del rinnovamento offrendo ai giovani (ormai il target giovani arriva fino a 45/46 anni) la possibilità di inserire i loro progetti in un apposito programma d’incubazione. Certo, rispetto a tutto il baraccone di Expo in questo caso si sta parlando di aiuole, di operazioni marginali, eppure sono questi dettagli che creano quell’immaginario che diviene l’evento stesso.
La sfida dell’immaginifico è il cuore di una qualsiasi azione volta a contrastare le malefatte di Expo2015, oggi più che mai in crisi: allo stesso modo in cui “Changemakers for Expo2015” promuove un sogno, i laboratori No Expo prima svelano le fattezze di ciò che è meglio considerare un incubo, poi lavorano per far riemergere la realtà e le macerie fumanti create dal macroevento. Più che un comitato popolare, l’attitudine No Expo è quindi un laboratorio permanente, una partita di expopolis giocata su più livelli il cui obiettivo, a questo punto, è quello di far rivivere la guerra vera e propria, non solo la sua immagine per ripercorrere l’inizio di questo testo partito da una suggestione baudrillardiana. L’1 maggio 2015 l’esposizione internazionale inizierà nel segno della contraddizione, della precarietà imposta a tutto il territorio metrolombardo, dello sfruttamento di corpi e terre per permettere il rilancio a un cadavere, quello di un’economia che sino a oggi ha distribuito briciole e macerie contornate da utopiche promesse d’innovazione e cambiamento.
Nuove crepe nella vetrina di Expopolis si presentano all’orizzonte.
No Expo come negazione non è più bastante: un nuovo punto di vista in grado di generare una diversa visione del territorio è la sfida che questa crisi ci impone. In questa sfida non partiamo sconfitti. La vetrina può andare in frantumi.
No Expo Milano – marzo 2013